Cristina Chirichella, parlo di me: «Vivo in un mondo tutto mio, leggo i dettagli e anticipo»

Cristina Chirichella, parlo di me: «Vivo in un mondo tutto mio, leggo i dettagli e anticipo»
Cristina Chirichella è una voce del verbo schiacciare. Gioca nella Nazionale italiana di pallavolo che sabato prossimo comincia la sua avventura ai Mondiali in Olanda, ad...

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Cristina Chirichella è una voce del verbo schiacciare. Gioca nella Nazionale italiana di pallavolo che sabato prossimo comincia la sua avventura ai Mondiali in Olanda, ad Arnhem, contro il Camerun. È la stessa Italia che vinse il titolo europeo un anno fa, la squadra di Paola Egonu e Miriam Sylla, passata da Napoli nei giorni scorsi per le ultime amichevoli. Chirichella proprio da Napoli è partita, quartiere Colli Aminei, dove i vicini di casa chiamavano lei e la sua famiglia i watussi, senza immaginare che una ragazzina di quattordici anni può affliggersi nel sentirsi dire «ehi, che aria tira lassù», nella scoperta quotidiana di essere sempre la più alta, nell'attesa davanti allo specchio dell'arrivo di qualche curva sul corpo.

Cristina ha raccontato qualche anno fa a Vanity Fair questo disagio, «mi nascondevo in felpe grosse e pantaloni larghi, ma lo sport mi ha aiutato ad accettarmi. Una persona deve volersi amare, bisogna lavorarci su e capire che c'è un posto per tutti, una dimensione per ogni persona».

Adesso ha 28 anni, è stata la capitana della squadra, gioca nel ruolo di centrale, «dove - dice - bisogna avere due caratteristiche o preoccuparsi di svilupparle. La prima è la lettura dei dettagli. Uno dei miei compiti è saltare al muro, dunque mi serve capire in fretta da quale parte arriverà l'attacco avversario per spostarmi. In campo, col tempo, impari a cogliere certe sfumature: uno sguardo dall'altra parte della rete, un movimento delle spalle, la preparazione di un braccio, un pallone che nasce più lungo o più corto delle mani della palleggiatrice». 

Tutto in una frazione di secondo? Lei guarda tutti questi dettagli anche fuori dal campo?
«Quelli che mi interessano. Vivo molto dentro un mondo mio, spogliato del superfluo, dove cerco di non farmi più pesare troppe cose, cerco di farmele finalmente scivolare addosso, di dare la giusta importanza alle priorità. Ma certe volte il dettaglio è tutto, nella misura di un'amicizia o di un affetto. La seconda caratteristica è saper anticipare i tempi, prendere un vantaggio, farsi trovare prima là dove succederanno le cose».

Com'è questa vita in contro-tempo? C'è qualcosa che pensa di aver anticipato troppo?
«Un tempo avrei detto: essere andata via di casa a 14 anni. Oggi penso di aver vissuto ogni momento quando dovevo. Non è stato semplice. Sono partita quando ero piccola, per arrivare in un posto nuovo, Roma, dove mi sono integrata lentamente, molto lentamente, tra crisi di pianto pazzesche, nostalgia, la ricerca disperata di un'amica, o almeno di una compagnia con cui passare del tempo. Mi sentivo respinta, spesso non mi capivano neppure, parlavo ancora molto in dialetto, non stretto, ma con un accento forte, marcato, in una realtà piena di altre ragazze che a loro volta erano smarrite. Ero la tipica adolescente in preda alla ribellione verso la famiglia, eppure andar via di casa è stato un trauma. Un passo importante, ma un trauma».

Perché andò?
«Mi avevano invitato a unirmi al Club Italia, dove la federazione fa crescere le migliori promesse. Ho finito il liceo linguistico tra Roma e Milano. A Napoli non c'erano molte squadre di alto livello, ero cresciuta alla A.G. Colli Aminei, ma quasi per caso. A tutto pensavo, fuorché alla pallavolo, che era lo sport di mio fratello. Mio padre invece giocava a basket, prima di dedicarsi alla fabbrica di guanti in pelle di famiglia. È strano. Lui si prende cura delle mani, io le distruggo con tutte le botte che prendo. Per molto tempo non ho saputo se questa fosse davvero la mia strada. Mi spinse lui: prova, oppure torni indietro. Avevo il mio gruppo di scout, facevo sport a scuola nell'ora di educazione fisica. I professori ci tenevano a farci provare tutto, il basket, l'atletica, il salto in lungo, il salto in alto, anche la marcia. Quando sono cresciuta in altezza, ho dovuto lasciare danza».

Com'è la qualità dello sport a scuola?
«Io ho avuto buone esperienze. Ne ho fatte tanto. Per me era prima di tutto un momento di relazioni sociali. Mi piaceva stare in gruppo in palestra e ancora di più mi piaceva uscire dopo la palestra. Penso che si potrebbe far meglio. Penso che si potrebbero migliorare le strutture, soprattutto al sud, dove siamo molto indietro con gli impianti e negli investimenti. Viviamo una realtà più povera, dove si cerca di fare il possibile e di inseguire almeno la qualità. È un peccato, se penso a quante potenzialità finiscono sprecate».

Dopo l'oro europeo, al ricevimento, il presidente Mattarella vi disse: vorrei che il Paese fosse come voi. Una ricerca Istat sostiene che, grazie alla pratica scolastica, la pallavolo è lo sport preferito dalle figlie degli immigrati.
«Meno male, mi viene da dire. La pallavolo non bada più da tempo ai confini, ai limiti che pone il resto della società. Tra di noi abbiamo anche smesso di farci caso, prima generazione, seconda generazione: siamo italiane. In generale, penso che lo sport sia un fattore culturale da incentivare e su cui puntare. Non solo nelle regioni ricche, non solo nella pratica agonistica o nell'élite. Sto parlando di attività fisica per tutti, per i sedentari, nelle carceri».

Perché ci sono ancora così poche donne in panchina?
«Bella domanda. È vero. Vorrei saperlo anch'io. Quel che so è che una donna allenatrice avrebbe tanto da insegnare, quanto un uomo. Senza mettere steccati, dico che sarebbe necessaria soprattutto in squadre femminili. Invece associamo ancora il genere maschile alla figura di chi allena. Le donne in uno staff tecnico fanno bene. Da noi in Nazionale ce n'è una, il nostro medico, la dottoressa Alessandra Favoriti. Le donne portano un punto di vista differente».

L'anno scorso, durante le Olimpiadi, si è aperto un grosso dibattito, soprattutto in Germania, sul modo in cui la pallavolo femminile e il beach volley vengono riprese dalle telecamere. Molte giocatrici si lamentano per alcune inquadrature che indugiano troppo sui dettagli dei corpi. Lei che ne pensa?
«Quando gioco, non ci faccio caso. Penso alla partita. Nel rivedersi, non è piacevole. Servirebbe più consapevolezza del tema, servirebbe più competenza tecnica in chi riprende, così come è stata inseguita e ottenuta in telecronaca con la seconda voce di chi commenta. È la società in cui ci troviamo a vivere. Vince ancora troppo spesso questa dimensione dell'effimero».

Quali sono le conquiste per cui battersi?
«Le differenze nel mondo del lavoro. In termini di opportunità e di salario. Non credo che dopo la carriera da giocatrice sceglierò un percorso da allenatrice. Sto costruendo il mio futuro su altre basi. Mi sono laureata alla Cattolica in Scienze motorie, con una tesi sulla spalla dolorosa.Ci tenevo a iscrivermi a un ateneo dove si dovesse frequentare, per non iscrivermi a una facoltà telematica. Volevo provare il piacere di andare a lezione, conoscere persone nuove, scambiare gli appunti, fare tutte quelle cose che si fanno alla mia età. Incontrare ragazze e ragazzi di altri mondi, mescolarsi, scambiarsi le esperienze».

Gli uomini hanno vinto il titolo mondiale in Polonia. Che cosa dobbiamo aspettarci da voi?


«Le ambizioni sono grandi, ma sappiamo pure che le altre squadre ci aspettano. Saranno battaglie. Le affronteremo».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino