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Calciatore aristocratico in campo e testa pensante fuori, tempo fa Toni Kroos ha sintetizzato il problema con inesorabile e teutonica logica: «Noi giocatori siamo burattini nelle mani dei dirigenti del calcio. Se ci fosse una reale unione tra noi, non verremmo costretti a giocare cose come la Nations League, o la Supercoppa in Arabia».
Né a disputare stagioni da 13 mesi e 85 partite, come è capitato a Bruno Fernandes a giugno, né a compiere sfacchinate come i sudamericani anche in questo turno di nazionali: uno come Lautaro Martinez, per dire, potrebbe giocare due volte in 41 ore, prima Argentina-Perù a Buenos Aires poi Lazio-Inter a Roma, e nessuno che si opponga a questa follia.
Ma perché i giocatori non si ribellano? Questo calcio assurdo ingrassa i conti in banca, ma danneggia seriamente la loro salute, e lo sanno bene.
Kevin De Bruyne, che già aveva disputato gli Europei con una doppia frattura facciale quasi guarita, ha confessato che per giocare Belgio-Italia da infortunato ha dovuto ricorrere a due devastanti infiltrazioni alla caviglia. Sono burattini, dice Kroos, o arlecchini servi di due padroni, i club e le nazionali, in un cappio che li strangola. Le loro rappresentanze sindacali latitano, o non hanno peso, ma dal cul de sac si esce solo diminuendo le partite. Nessuno fa il primo passo, né le leghe, né Uefa o Fifa.
E se ci pensassero i giocatori? Guadagnare meno per giocare meno partite potrebbe essere un punto di partenza interessante, una proposta sensata. Ma nessuno di loro, o chi per loro, l’ha formulata. Però qualcuno inizi, è urgente. Ne va della salute, che è la cosa più importante della vita. O no?
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Il Mattino