La forza da una parte, la forma dall'altra. Oppure: le cause ed il senso. Sono due piani distinti. La rivolta dei calciatori del Napoli ha certamente le sue cause in dinamiche...
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Riguarda il danno d'immagine che ne ricevono il Napoli calcio e, insieme, la città? Sicuramente. Ma qui non si tratta di quantificare il danno né tantomeno di fare processi ed assegnare colpe, bensì semplicemente di riconoscere un senso in tutto ciò, e di riconoscerlo nei suoi termini generali, che vanno purtroppo al di là delle vicende del campionato (dove, dopo tutto, la corsa ai primi posti è ancora aperta) e di quelle della Coppa (dove la qualificazione si è fatta più vicina, con il pareggio di martedì scorso).
Il senso, per quel che è dato vedere, riguarda le distanze. Il tenere le distanze, l'osservare le distanze, e anche, a volte, l'aprirsi di distanze che, poi, si fanno incolmabili. Quando un giocatore arriva quasi allo scontro fisico con il vicepresidente della società, vuol dire che ogni distanza è stata azzerata, che non c'è più riconoscimento di ruoli e formalità di rapporti. Certo, si tratta di scatto di nervi, di rabbia e concitazione, di incomprensioni e errori, di debolezze o di cattivo carattere, ma questa è solo una parte, la parte della psicologia. Poi c'è tutto quello che si iscrive nei luoghi, nelle cose, nelle istituzioni. E dura, ben oltre i passeggeri moti dell'animo. Perché l'uomo è un animale istituzionale: fa quel che fa dentro un contesto di abitudini, di regole, di pratiche. Che condiziona, certo, ma da cui, anche, è condizionato. Un secolo di scienze umane ci ha insegnato che persino le forme più private quelle per esempio, di espressione dei sentimenti, del dolore o della collera indossano maschere, si adeguano cioè a codici, norme di comportamento, rappresentazioni collettive (particolarmente, poi, in un mondo così fortemente ritualizzato come il calcio). Allan, Insigne e gli altri lo abbiano compreso o no, hanno dunque messo in scena la rappresentazione collettiva di un ambiente nel quale le distanze possono essere, nell'agitazione di un momento, cancellate. Sui giornali, quell'ambiente è, con la semplice elisione di un articolo determinativo, Napoli.
Può darsi anche che Edo De Laurentiis non possegga quello che Nietzsche chiamava il pathos della distanza, l'ampiezza e l'altezza di sguardo che si accompagna all'esercizio di un'autorità e che l'altra sera ne abbia pagato le conseguenze. Non c'è autorità senza distanza, infatti. Ma vedere Ancelotti, non proprio l'ultimo arrivato, disertare la conferenza stampa e lasciare scuro in volto lo stadio significa che anche lo sguardo dell'allenatore aveva perso l'ampiezza necessaria. I calciatori si erano fatti sotto, anche il mister ha dovuto indietreggiare.
E dov'erano, allora, gli altri dirigenti? Dov'era il Presidente? Altrove. Tanto si accorciavano le distanze nel dopo-partita, tanto più si è visto, di rimbalzo, com'è costruita la Società Calcio Napoli. Aurelio De Laurentiis sta altrove, cerca di stare altrove, di mettere distanza fra sé e un ambiente che ha evidentemente troppe aderenze, troppe prossimità. Che vive di troppa passione, sicuramente, ma che si prende pure troppe confidenze. Chi ora deve riportare ordine nella squadra, si preoccupi di rimuovere le cause di tutto questo malessere, agisca con intelligenza e lungimiranza, mettendo se possibile da parte i risentimenti personali: il campionato è ancora lungo, e la Champions League è un'avventura esaltante che non va sprecata. Al di là di sbagli, obblighi, provvedimenti disciplinari, e conduzioni manageriali, a noi resta l'amarezza di aver purtroppo visto indossare al Napoli e ai suoi giocatori una maschera che non ci piace. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino