È il Napoli di Fabian Ruiz, tornato finalmente viceré

È il Napoli di Fabian Ruiz, tornato finalmente viceré
Torna ad essere viceré Fabian Ruiz, con una tenuta aristocratica del campo, sempre al centro del gioco, una sicurezza per Bakayoko e Demme, oltre che per gli altri. Un...

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Torna ad essere viceré Fabian Ruiz, con una tenuta aristocratica del campo, sempre al centro del gioco, una sicurezza per Bakayoko e Demme, oltre che per gli altri. Un corpo pieno di note e geometrie, che dirige l'orchestra Napoli. Un direttore perduto, inabissato, come mezza squadra del Napoli, e che, contro l'Udinese, dimostra di essere tornato, in tempo per la volata Champions del Napoli e gli Europei della Spagna. Ruiz ha una indolenza tipica di chi è conscio del proprio valore, pure troppo, al punto di trasformare la sicurezza in riottosità, rimando, stanchezza. Ma poi è in partite come questa che svetta, e svettando trova anche il tempo di segnare. La sua nobiltà calcistica lo porta ad essere un Oblomov spagnolo che riottoso rinuncia ad alzarsi oltre il centrocampo, figuriamoci a tornare, per buona parte della stagione, e poi, a giocare da tuttocampista arando il campo, coprendo, interrompendo ogni azione dell'Udinese, e dominando, con una generosità impensabile. Poi, alla prossima calerà di intensità, o giocherà meglio, chissà, ma che importa? Intanto ha concesso il numero in eccesso, intanto ha dato il tocco che serviva, intanto si è messo ad orchestrare e ha portato una gran vittoria. Il suo calcio, le sue assenze, e le sue iper-presenze evocano il Redondo del Real Madrid, con intorno una rendita di tocchi, tacchi, stoccate, tunnel, perizia di passaggi, un repertorio patrizio che lo mette al riparo dalla volgarità della sufficienza, che lo sposta in alto e allontana dalla normalità, ma tutto questo già lo sa, gli appartiene, e lo sfoggia con parsimonia, quando gli va. Un tuttocampista interrotto dalla volubilità. Che stoppa nello spazio al limite e di sinistro oplà mette la palla all'incrocio dei pali alle spalle di Musso. Una concessione di classe che illumina la sera di goleada napoletana. È il gol più bello, ma lui, sorridente, sembra dire: Mi sembra ovvio, è il mio, mica c'è da meravigliarsi? E poi continua la sera di elargizioni, palleggia e volta, recupera, riparte, imposta, pesca, lancia, appoggia, e si diverte, una giostra smista-palloni al centro del gioco del Napoli.

Ruiz pare giocare sempre sul punto della trascendenza, sia che si perda sia che si erga a dominatore, è un calciatore dell'oltre, amministra palloni con un palleggio felpato, spesso di suola, per aumentare il distacco, per non lasciare alla palla tutta quella confidenza che si prende dagli altri, pochi tocchi e precisi, un pragmatismo che è ricercatezza, prima che si trasformi in offensiva o anche in gol. Ruiz potrebbe fare anche di più, ma è un innamorato del dubbio, dell'esitazione, del tentativo. Gli piace stupire, e perdersi. Stupire e sparire. Stupire e tornare. Stupire e segnare. Il suo calcio penzola dalla volontà, oscilla tra impegno e disimpegno, invenzione e banalità. L'onda del dribbling quando serve, altrimenti il lancio come rifugio di pigrizia mascherato da generosa verticalizzazione. Ha i piedi troppo buoni per mettersi anche a correre a spaccamilza, no, perché farlo?, quando ci si può girare col pallone prima di tagliare il campo con un disimpegno da repertorio per Cahiers du cinéma, mentre la plebe sogna. Ruiz è una scuola di pensiero che presto ritroverà la capitale spagnola un fuoriposto ovunque tranne che a Madrid per essere rimpianto nei suoi improvvisi rovesci per aree di rigore. Le sue aperture sembrano svagatezze per uscire dalla normalità, potrebbe costruire di più ma sarebbe una opera da normali, potrebbe segnare di più ma parrebbe volgare, allora lui sta, appoggiato alla sua gloria possibile e ogni tanto la mostra.

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Il Mattino