Avellino, le voci dei profughi del palazzetto:
​«Grazie, ma vogliamo tornare a casa»

Avellino, le voci dei profughi del palazzetto: «Grazie, ma vogliamo tornare a casa»
di Gianni Colucci
Martedì 29 Marzo 2022, 09:32
4 Minuti di Lettura

Lo sguardo attento allo schermo del cellulare per carpire le notizie buone che arrivano dal fronte ucraino: «Stiamo cacciando gli invasori».
Si percepiva euforia e tristezza, disorientamento e a volte serenità ieri mattina al Paladelmauro. E anche un pensiero che risuona continuamente: «Grazie agli irpini, ma vogliamo tornare presto a casa».
Sumy e Mariupol, Zitomir e Mykolaiv: i nomi di città che sono diventati familiari in queste settimane di scontro bellico, rimbalzano nel piazzale dove è operativo l'hub di accoglienza di Questura e Asl, uno sportello unico che raccoglie chi deve vaccinarsi o fare il tampone, chi deve ottenere un documento di identità e un permesso temporaneo che l'avvierà nell'iter di rifugiato. La Croce Rossa all'ingresso distribuisce dolciumi e bevande ai piccoli, passeggini e sedie a rotelle trasportano quel che resta di famiglie frantumate dalla guerra. Anziani che sono riusciti a partire dai loro paesi e nipotini che non sanno se rivedranno un giorno il papà.
Maria a Montefalcione ha trovato un lavoro e il compagno. Aveva lasciato l'Ucraina da quasi dieci anni: «Ho quaranta anni, mia figlia l'ho avuta a 16 anni, a Mariupol aveva deciso di sposarsi e il 22 febbraio ero arrivata per il matrimonio, il giorno dopo i russi sono arrivati. Ho preso i miei genitori anziani e sono scappata», racconta.
Maria parla e spinge la carrozzina del papà. Il padre era un poliziotto, ha avuto un ictus e un infarto, non cammina, ora ha settanta anni. Maria l'ha preso con se in autobus ed è ripartita verso l'Italia insieme alla madre e a una nipotina. «Noi siamo riusciti a ripartire. Il mio pensiero è per mia figlia che è rimasta con il marito che dovrà andare al fronte. Non ha voluto lasciare la casa».

All'hub del Paladelmauro si affastellano storie di umanità dolente. Ci sono bambini e donne anche giovanissime che arrivano per chiedere informazioni, per attivare i documenti di identità e l'assistenza sanitaria. Non parlano che due parole di inglese e i mediatori culturali si danno da fare per raccogliere le loro domande al front office.
Alcuni sono arrivati da poche ore dal confine polacco, alcuni sono qui da qualche settimana.
Ieri mattina almeno una cinquantina di persone ha effettuato il tampone, altrettante la prima dose di vaccino.
C'è bisogno di raccogliere le idee, di trovare un po' di pace interiore prima di ricominciare.
Spesso accompagnate da amici e parenti che già vivevano in Italia, a volte da sole, queste donne con i bambini al seguito hanno la testa perduta dietro il pensiero di un marito che è rimasto in Ucraina per combattere.
«Anche io voglio tornare al più presto», dice Irina che sta allattando in un angolo il suo bambino. «Mio marito è stato richiamato a 28 anni - dice - la nostra vita stava cominciando soltanto ora. Ma le bombe si sono messe tra di noi e il nostro futuro». Salita su un convoglio verso Leopoli, ha lasciato dietro di se un marito che aveva appena indossato la divisa grigioverde e imbracciava un fucile.
«Sta facendo quel che ogni patriota deve fare», dice, mentre il bimbo si stacca dal seno e sorride.

Video

Alexey forse è il più piccolo dei profughi arrivato ad Avellino, sei mesi e già tanta vita vissuta: le bombe, la casa semidistrutta la fuga in treno e auto, il viaggio verso la Polonia, poi il treno e il bus per l'Italia.
Poco più in là c'è Tatiana che ha i parenti a Mercogliano.È riuscita ad arrivare da Sumy fuggendo dai check point del russi: «Macchina e treno - dice il genero che vive da tempo in Italia - è stata brava, sono andato a prenderla al confine».
«Siamo scappati da un Paese dove oggi si muore per un telefono cellulare. Gli invasori strappano dalle mani degli ucraini cibo e soldi e senza pietà sparano a chi fa resistenza», dice l'anziana.
Non sono tutti contadini, ci sono ex commesse provenienti dalle città più grandi, una docente di tecnologia in una scuola superiore. Sono tutti in attesa di una parola di speranza, sono tutti portatori di un desiderio comune nel fondo del cuore: tornare a casa.
g.c.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA