Torino, il gioco delle capitali d'Italia e l'anniversario di 150 anni fa

Lunedì 22 Settembre 2014, 13:55
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Nel territorio che faceva parte del regno sardo-piemontese, le rivolte interne dal 1848 furono essenzialmente due. Una, quando ancora l'Italia non era unita, repressa a Genova nell'aprile 1849, da colpi di cannonate e baionette dei bersaglieri. La seconda, tre anni dopo l'unificazione italiana, in piena capitale, Torino, nel settembre 1864.  Sulla prima, non molti purtroppo conoscono particolari. Ricercatori genovesi e documenti ufficiali mlitari, oltre che memorie di ufficiali come Giuseppe Govone, forniscono però un quadro di repressione pari, come ha sottolineato di recente anche lo storico inglese John Anthony Davis, a quella contemporanea di Messina nelle Due Sicilie. La repressione a Genova fu compiuta tra il marzo e l'aprile 1849. I genovesi non ci stavano alla fine della guerra contro l'Austria, temevano che sulle loro teste il re avesse deciso di cedere territori, o che vi fossero ripercussioni economiche ai loro danni per la conclusione del conflitto. Esplosero incidenti, anche perchè Genova era stata assegnata al regno del Piemonte nel 1815 senza consultare alcuna volontà popolare. Era stato l'effetto della spartizione del congresso di Vienna. Fu molto chiaro Vittorio Emanuele II nella sua lettera al generale Alfonso La Marmora. Bollò i genovesi come "vile e infetta razza di canaglie". Alla fine, dieci furono le condanne a morte per la rivolta domata con il sangue da 30mila bersaglieri. Le bombe provocarono danni in città per oltre 75mila lire, con furti e saccheggi per 645mila lire. Ma era ancora regno sardo-piemontese. Nel 1864, c'era invece il regno d'Italia e a Torino esplose la protesta per il trasferimento della capitale, non annunciato ufficialmente dal re per timore di violente reazioni. Il 21 e il 22 settembre in piazza intervenne l'esercito. Oggi, proprio a Torino quei fatti saranno rievocati in piazza San Carlo. Negli inviti ai confronti tra storici e uomini di cultura si parla di "evento che mutò la storia del Piemonte e dell'Italia". I torinesi si sentivano traditi. La capitale portava affari, movimento, prestigio che si rischiava di perdere. Napoleone III aveva chiesto lo spostamento, anche per dimostrare che l'unificazione che aveva aiutato non era stata un semplice ampliamento del regno sardo-piemontese, ma la nascita di una nuova nazione. Degli incidenti a Torino si occupò una commissione. Una vicenda raccontata nel mio "Controstoria dell'unità d'Italia", ripresa da un recente libro, pubblicato da Valerio Monti: "Torino 1864. La strage impunita". Appare davvero significativo quanto ha dichiarato Monti alla Stampa di Torino: "Gli stesso torinesi, per paura di non essere corretti, hanno messo da parte quest'episodio quasi ignorato dai manuali per il filtro posto dagli storici vicini ai Governi di ciascuna epoca, che fece seguito alla glorificazione delle imprese sabaude". E ancora: "La valenza positiva del ruolo del Piemonte è stata ribaltata. Quella di una conquista è diventata l'interpretazione dominante" I piemontesi si sentirono colpiti nell'amor proprio. Traditi. Anche Giuseppe Mazzini diede ragione alla rivolta. Ancora una volta fu La Marmora, la spada fedele ai Savoia, a doversi occupare di mettere a posto le cose dopo gli scontri provocati da altri. Il bilancio era stato di 50 morti e 200 feriti. Una vera strage di popolo, per di più nell'allora capitale d'Italia. Alla commissione d'inchiesta le dichiarazioni furono di diverso tenore. Il deputato torinese Casimiro Ara parlò di "provocatori venuti da fuori". Le proteste principali ebbero come bersagli esponenti di governo come Minghetti, Peruzzi e il "napoletano" Spaventa cui, senza prove, si addossarono responsabilità dirette sull'uso di agenti provocatori "venuti da fuori". Anche la nobiltà vicina alla corte si sentì tradita. La baronessa Olimpia Savio racconta nelle sue memorie di quanti disertarono il tradizionale ballo di Carnevale, organizzato da casa Savoia, per paura e protesta. Vittorio Emanuele II prese così a male la rivolta che il 3 febbraio 1865 era già a Firenze. Era sempre l'Italia divisa, nella cultura e negli interessi, al di là dell'unificazione politica. Un'Italia descritta assai bene dalla baronessa Savio (che aveva perso due figli nella campagna della Bassa Italia), che descrive così l'atteggiamento di nobili e borghesi del Piemonte, in quel 1864: "C'è sempre vento, acqua cattiva, dove s'arriva da tutte le parti del mondo, così che non si sa mai con chi si parla, senza dire che bisogna parlare sempre italiano...O car! car 'l nostr Turin!" . La buona società torinese si rendeva conto che l'unità della nazione costava sacrifici, imposti a tanti in altre regioni del Paese. Oggi ricorrono 150 anni dalle proteste di Torino capitale. In quanti lo sanno?
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