Maria Pirro
Prontosoccorso

«Napoli e i senza fissa dimora:
perché vanno chiusi i dormitori»

«Napoli e i senza fissa dimora: perché vanno chiusi i dormitori»
Maria Pirrodi Maria Pirro
Mercoledì 23 Febbraio 2022, 12:36 - Ultimo agg. 12:45
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«Anche per le persone che sono costrette a vivere per strada, senza una fissa dimora, l’attenzione si riaccende il più delle volte in seguito a episodi luttuosi, come la morte di un clochard a causa del freddo, oppure quando è il decoro della città a reclamare un intervento urgente. Prima di essere nuovamente dimenticati, alla fine restano intatti i problemi, persistenti i bisogni e inviolate le crudezze della marginalità che di tutto questo è causa». Emilio Lupo, psichiatra e responsabile nazionale organizzazione di Psichiatria Democratica, chiede uno spazio invece per presentare proposte concrete, dopo la riflessione dell'assessore comunale al welfare, Luca Trapanese, ospite della web tv del Mattino: «Vorrei pertanto provare a dare un contributo per andare oltre, per “svoltare”», dice.

Cosa propone?

«Penso a nuovi percorsi che consentano di oltrepassare quei vecchi schemi, spesso intrisi di pregiudizi, per approdare a nuove sponde così come negli anni passati è avvenuto per i brefotrofi, gli ospizi, i manicomi e, ci auguriamo, presto anche per le carceri. Queste esperienze hanno avuto, come alternativa all’istituzione escludente e segregante, funzionale all’espulsione della persona disagiata, la comunità allargata e partecipativa».

Dal suo osservatorio, qual è lo stato dei servizi in città?

«A Napoli un percorso è iniziato e non sono mancate nel corso degli anni iniziative volte a rispondere ai bisogni primari dei senza fissa dimora: offerta di posti letto presso il dormitorio del Comune e dal mondo del volontariato e servizi di sostegno alla persona (cambio indumenti, docce, consultazione legale), queste ultime affidate alle cooperative sociali. Con le nelle mense e la consegna di pasti o di materiale in più punti della città. Pur avendo fatto certamente passi avanti proprio nell’offerta, registriamo però che non c’è stato lo scatto e, in genere, resta prevalente la tendenza a ridurre tutto al pasto, al letto e al decoro, che non è poco ma non abbastanza. Bisogna andare oltre. C’è bisogno di un nuovo paradigma».

Ossia?

«Mi rifaccio alle dichiarazioni dell'assessore Trapanese sul Mattino, sua l’idea di avere centri con massimo quindici posti funziona. "Chi ci va non si sente in un dormitorio, ma piuttosto in una comunità": è una affermazione che trovo pienamente condivisibile, perché implica altre scelte di fondo, e mi auguro che alle parole segua una progettazione di nuovi percorsi e la messa in opera di ulteriori attività volte all’inclusione. Per poter “svoltare”, infatti, occorre concepire e attuare pratiche di deistituzionalizzazione, a cominciare dallo smantellamento progressivo dei dormitori, figli di una cultura della semplificazione, che si limita agli interventi di ordinaria umanità e che da sempre ignora l’importanza del lavoro di connessione tra diversi».

Lei ha partecipato alla chiusura dei manicomi in città.

«Per questo, riguardo alla deistituzionalizzazione, al riconoscimento dei diritti e alle pratiche di inclusione noi di Psichiatria Democratica qualcosa da dire l’abbiamo.

Da oltre venti anni, tentiamo di annodare un lungo filo rosso attraverso modalità e caratteristiche innovative degli interventi da attuare sull’intero territorio cittadino. A nostro avviso, analisi dei bisogni e concretezza delle proposte non possono che procedere parallelamente, ed è in questa direzione che riteniamo dirimente poter leggere e decodificare le variegate necessità e bisogni delle singole persone, così da poter programmare interventi capaci di soddisfare le esigenze via via emerse».

In concreto, come?

«Si tratta di promuovere un’accoglienza sia notturna che diurna differenziata nelle risposte, in linea con quanto indicato da Trapanese. E poi, un graduale inserimento nel mondo del lavoro, nel pieno rispetto delle individualità, da realizzarsi attraverso aree di intervento specifiche, con il coinvolgimento dei diversi attori in campo (Istituzioni, mondo della cooperazione e dell’artigianato, eccetera. Quindi, prevedere la possibile sistemazione in piccoli gruppi-appartamento o in alloggio autonomo, lla creazione di spazi con caratteristiche chiare e nette: luoghi di vita di dimensioni appropriate, ben inserite nel tessuto territoriale, aree di scambio da attraversare, in cui "attivare risorse multiple e articolate… secondo i bisogni e nel rispetto delle individualità". Questo lo scrivevamo nel frontespizio di un progetto sui senza dimora, che nel lontano 2002 presentammo alla città come “Laboratorio per le città sociali” di cui facevamo parte insieme alle sezioni napoletane di Magistratura Democratica, della Cgil Fp e dei Cantieri sociali».

Le iniziative oggi appaiono piuttosto frammentate.

«Suggeriamo, infatti, l’armonizzazione dei diversi interventi da intraprendere, in maniera che tutti gli attori in campo - enti locali, associazionismo, cooperazione sociale e volontariato - costituiscano ciascuno una tessera dell’intero mosaico. Con un intervento promosso e coordinato direttamente dal Comune, le ricadute positive possono essere ancora più importanti, razionalizzando le spese anche al fine di evitare da un lato doppioni di interventi e differenziando meglio gli ambiti di intervento. Le premesse ci sono tutte perché l’amministrazione napoletana guidi e coordini un processo di presa in carico della comunità intera e non soltanto spicchi di essa, avanguardie presunte o reali, benefattori a intermittenza (per dirla con don Ciotti), riprendendosi nelle mani il ruolo solidale e inclusivo che la Costituzione le assegna».

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