Sono i primi di luglio del 2018 quando, dopo otto anni di carcere duro e scarse prospettive di uscire dal limbo della detenzione, Nicola Schiavone, primogenito di Francesco Sandokan, sfonda il tabù di famiglia e diventa il primo pentito di sangue casalese. Nessuno, prima di lui, aveva osato tanto. Ma non resta solo. La madre e le sorelle accettano la protezione dello Stato, vale a dire condividono la scelta di Nicola. Pochi giorni dopo, anche suo fratello, papà da qualche mese, decide di aderire al programma riservato ai familiari dei collaboratori di giustizia. Walter Schiavone è l’unico dei tre fratelli sotto processo a condividere la scelta di Nicola. Gli altri, Ivanhoe, Libero Emanuele e Carmine, il primo libero, gli altri detenuti, restano con il padre e rifiutano di mettersi sotto l’ala dello Stato. Tra invettive - Zagaria gli intima in aula di «non nominare» suo padre - ricostruzioni più o meno utili agli investigatori - in diverse occasioni il pentito Schiavone viene smentito o si è contraddice, come al processo Cosentino -, sovvenzionati dallo Stato con uno stipendio dopotutto dignitoso, (il contributo per pentiti e parenti con famiglie a carico va da 1200 ai 1400 euro) gli Schiavone vanno avanti in due gruppi che percorrono strade parallele. Fino a ieri. Quando i carabinieri del Nucleo investigativo di Caserta, diretti dal maggiore Diego Ruocco, arrestano Walter Schiavone. Lo vanno a prelevare all’alba nella località protetta in cui si nasconde con moglie e figlio. L’accusa, per lui, è di avere imposto per la distribuzione di prodotti caseari, le aziende di un amico d’infanzia, Antonio Bianco, ai caseifici della penisola sorrentina. Un giro da svariate decine di migliaia di euro a settimana.
Al figlio del boss, lo stipendio da poco più di mille euro al mese, evidentemente, non basta.
I dialoghi intercettati in carcere in cui diversi affiliati al clan Schiavone parlato dell’affair latticini gestito dal figlio del boss e i racconti di alcuni collaboratori di giustizia costituiscono lo scheletro dell’ordinanza. È un copione già visto. Anziché imporre il pizzo, i Casalesi si infiltrano direttamente nel tessuto economico con le proprie ditte e i propri prezzi. Nessuno viene minacciato: basta, per «convincere» i proprietari dei caseifici sorrentini, il cognome Schiavone. Tanta è la paura che agli atti non c’è denuncia alcuna. Le società facenti capo a Schiavone e gestite dai prestanome, sono le sole cui i caseifici della penisola sorrentina possono rifornire. La gestione è dunque egemonica. Inutile sottolineare che il prezzo imposto ai malcapitati è al di sotto del valore di mercato, che spesso la merce non viene neanche pagata e che i gestori dei caseifici non si sognano neanche lontanamente di esigere il denaro loro dovuto per le forniture. Le vendite, sempre secondo la ricostruzione della Dda, avvengono oltretutto eludendo il sistema di tassazione fiscale: i marchi «I freschissimi» e «Bianco latte» non compaiono nella documentazione contabile. Le entrate sono rendicontate dagli indagati ogni settimana a Walter Schiavone, nonostante questi sia prima ai domiciliari e, poi, in una località protetta. E campi con i soldi della Stato. Ma solo sulla carta.
Quello dei prodotti caseari è affare storico nelle mani di Walter Schiavone. Nel 2018 emerge il patto con la ‘ndrangheta per imporre i formaggi dei Casalesi in Calabria. L’anello di giuntura è un luogotenente degli Giampà, potente ndrina vibonese. «Portammo i prodotti a Lamezia Terme a Benincasa, grossista di pesce e esponente dei Giampà, che ci aiutava nell’imposizione dei formaggi in quelle zone», le parole del pentito Vargas. L’amicizia tra gli Schiavone e Benincasa risale, secondo Vargas, al periodo in cui Benincasa era al 41 bis con Sandokan.