Vent'anni senza Bobbio, filosofo degli ossimori

Ritratto di un socialista ma liberale

Norberto Bobbio
Norberto Bobbio
di Massimo Adinolfi
Martedì 9 Gennaio 2024, 09:25
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Un piccolo bagaglio, i frutti migliori della tradizione culturale europea: è quel che ci lascia Norberto Bobbio (18 ottobre 1909-9 gennaio 2004), a vent'anni dalla morte: «l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose». La fisionomia dell'intellettuale che il filosofo tratteggiava in uno dei suoi libri più importanti, Politica e cultura, ha oggi, nell'epoca degli influencer e della viralità informatica, quasi il sapore di una sfida. Dove possono trovarsi tutte insieme queste virtù?

Ma si può essere ancora più sintetici. Come ebbe a dire una volta Salvatore Veca, la più gran parte degli scritti di Bobbio «potrebbero essere iscritti sotto l'insegna del "quale". «Quale socialismo? Quale democrazia? Quale libertà, quale uguaglianza?».

Domandare sempre «quale?», come Bobbio non smise mai di fare, significa fare esercizio di distinzione la parola di Croce che forse Bobbio amava di più, e di cui non trovava invece traccia in Gentile , ed è forse questo il solo modo e la via per tenere insieme il liberalismo e l'ispirazione sociale che animavano il suo pensiero.

Amante scrupoloso della chiarezza concettuale e di uno stile privo di qualunque retorica verbosità, è singolare che per restituirne il ritratto intero si siano potuti mettere in fila un buon numero di paradossi. Bobbio è stato secondo uno dei suoi più attenti studiosi, Alfonso Ruiz Miguel un filosofo positivo (cioè un filosofo, sì, ma sospettoso nei confronti della filosofia come ideologia); un illuminista, quindi un progressista, indubbiamente, e però al contempo un inguaribile pessimista; un realista, d'accordo, però insoddisfatto (mentre di solito i realisti si accomodano con soddisfazione nella realtà qual è, senza i tormenti dei romantici e degli idealisti); e così via, attraverso figure sempre latamente ossimoriche: un analitico storicista, uno storico concettualista, un giuspositivista inquieto, un empirista formalista, un relativista credente, un tollerante intransigente e, infine, anche un ircocervo, ossia un socialista liberale: l'animale immaginario, almeno secondo don Benedetto.
In effetti, i due termini non si sposano in natura: per metterli insieme ci vuole la storia. Una certa storia. Tutta la riflessione storico-politica di Bobbio, che ha accompagnato le vicende del nostro Paese nell'arco di 50 anni, dal fascismo alla democrazia, è volta, si direbbe, a scrivere quella storia, i momenti di mediazione e di compromesso necessari per abitare la sottile striscia di terra della democrazia. Il più alto dei quali è stato, nella vicenda italiana, la Costituzione repubblicana.

Ora, il libro più fortunato e più noto di Bobbio Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica (distinzione: appunto) esce nel 1994, trent'anni fa. La prima Repubblica è finita: il governo è guidato da Berlusconi (non l'hanno visto arrivare), e per la prima volta in maggioranza ci sono forze che non hanno partecipato alla scrittura della Carta. Giancarlo Bosetti invita Bobbio e Vattimo a ragionare intorno al saggio appena pubblicato e al suo clamoroso successo (sinistra vuol dire anzitutto uguaglianza; destra vuol dire anzitutto libertà), ma la discussione cade immediatamente sulla Costituzione, sulla volontà all'ordine del giorno di cambiarla: non più semplicemente di attuarla, come si diceva fino a 10, 15 anni prima, ma, di aggiornarla, di riformarla, di affrontarne una nuova stesura. Quella stagione è ancora aperta: la transizione, infatti, non si è conclusa, e nuove proposte sono sul tavolo. Ebbene, è degno di nota che Bobbio non esiti in quel dibattito, a dichiararsi risolutamente conservatore nei confronti della prima parte della Costituzione, ma che poi aggiunga, quanto al resto: «si tratta di capire se la decisione di mantener fede alla Costituzione, che ha corrisposto sempre un po' alla mia inclinazione, non sia perdente». E più avanti: «L'introduzione di una diversa organizzazione statale, magari di una repubblica presidenziale, non appare una modifica sconvolgente». Rileggere oggi quelle parole fa uno strano effetto: è come se non avessero mai attecchito, è come se i timori di una destra eversiva (la posizione di Vattimo, nel dibattito) non avessero mai lasciato il Paese, impedendogli di misurarsi seriamente con i nodi aperti dalla nuova stagione politica.

Nel magistero di Bobbio si trovano molte cose: una riflessione approfondita e mai scontata, sempre storicamente guarnita, intorno ai diritti umani, e dunque un contributo decisivo al lessico principale della politica contemporanea; la scomoda meditazione internazionalista sulla guerra giusta, che molto spiacque ad amici e allievi del filosofo torinese; un'idea robusta di impegno politico e di filosofia civile, insieme ad una forte tensione morale, chiamata ad orientare sempre la bussola dell'opposizione decisiva fra fascismo e democrazia. Tutte cose preziose. Ma forse, se si vogliono nutrire ancora la sua inquietudine, i suoi dubbi, bisognerà saperne raccogliere anche, con lo spirito critico, la volontà di dialogo. Intransigente, certo, ma tollerante insieme. Ancora l'inciampo di un ossimoro, però indispensabile.

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