Mille anni di parolacce: una storia dell'insulto

Mille anni di parolacce: una storia dell'insulto
di Ugo Cundari
Domenica 21 Agosto 2022, 09:12 - Ultimo agg. 14:24
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Tre schiavi, sotto gli occhi del loro capo, trascinano a fatica una colonna in una basilica romana. Si fermano, si asciugano il sudore, riprendono e poi si fermano di nuovo. Il boss si innervosisce e li apostrofa «fili dele pute», vale a dire figli di puttana. È la fine dell'anno Mille, lui si chiama Sisinnio ed è passato alla storia per essere stato il primo a utilizzare, anche se nella forma non definitiva, la più antica parolaccia italiana, appunto «puttana», e forse è giusto anche ricordare il nome dei primi a essere apostrofati come discendenti di una prostituta, Albertello, Carboncello e Cosmari.

A quasi mille anni di distanza dalla comparsa dell'espressione ingiuriosa, l'essere un figlio di puttana è diventato anche un titolo onorifico, come nella scenetta in cui Fantozzi striscia davanti al megadirettore qualificandolo, con grande rispetto e invidia, come «gran figl.

di putt.», come ricorda lo storico della lingua italiana Pietro Trifone in Brutte, sporche e cattive (Carocci, pagine 132, euro 13), che è una storia specialistica e divulgativa delle parolacce più diffuse della lingua italiana. A conferma della variante positiva del figlio di..., l'autore cita tra tutti la versione napoletana di «figlio e ntrocchia», che indica un giovanotto scaltro e vivace. Per chiudere il cerchio sul termine «puttana», è curioso osservare che è la parolaccia, se si escludono gli organi genitali, che ha più sinonimi: bagascia, baldracca, battona, mignotta, paracula, troia e zoccola, che possono ammorbidirsi in passeggiatrice e lucciola, fino al più moderno escort.

Ancora poco chiara, invece, l'origine di «frocio». Il primo a usarlo nel senso di «omosessuale» è nel 1830 il poeta romano Gioacchino Belli, nei versi di «La pissciata pericolosa». Prima di allora con «frocio» o «froscio» sono indicati dagli italiani gli stranieri, in particolare i tedeschi e i francesi. «Frosce» significa «narici» e quindi ci si riferisce a quei tempi a uomini con il naso grosso. La locuzione «parlare frocio», attestata tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta del secolo scorso soprattutto nelle locande romane, significa «parlare straniero». Ma, ricorda Trifone, «la tendenza a individuare con intenzioni denigratorie i parlanti di altre aree linguistiche come frosci non era un'esclusività romana». Nel 1873 nel vocabolario napoletano di Raffaele D'Ambra compare il termine «froscio» con due sfumature semantiche per indicare lo stesso senso: indica il «forestere che non parla nel dialetto» e l'individuo «floscio», che parla con la erre moscia, come il tipico francese. Nel 1910 il medico napoletano Emanuele Mirabella in Mala vita, dedicato al linguaggio dei camorristi e dei delinquenti in genere, registra anche dalle nostre parti il cambio di senso assegnando «a froscio il significato di effeminato e a frocio quello parzialmente affine di pederasta passivo, riportando fra l'altro l'espressione del dialetto partenopeo froscio cianciuso, tartante, da lui tradotta sinteticamente con effeminato».

Trifone sottolinea che a Napoli con il termine «ciunciuso» riferito a una donna si intende «graziosa, leggiadra», mentre quando è riferito agli uomini assume il significato di «affettato, lezioso, svenevole» e qualche volta «stomachevole». Il froscio tartante o tartagliante, oltre a essere effeminato, si rivela affetto da balbuzie: «tartante è infatti un parente stretto di tantan, voce onomatopeica dei camorristi citata dallo stesso Mirabella e da lui tradotta appunto con balbuziente». Sicché, conclude l'autore, «a Napoli il froscio era un forestiero di cui non piaceva il modo di parlare, ora apprendiamo che poteva essere effeminato e persino tartagliare, proprio come facevano i barbari di più antica memoria».

Dall'uso del turpiloquio non è esente neppure il padre nobile della nostra lingua: Dante è il primo, in un passo del Purgatorio, a usare in senso dispregiativo la parola «bordello», come luogo di depravazione morale, e non si fa scrupolo nella Commedia a inserire nelle sue rime parole come fica, puttana, merda e merdoso, bastardo. Dante torna spesso anche sul potere ventoso del deretano: a volte parla del «trullare» che significa scorreggiare, e uno dei suoi versi più noti, ironici e popolari, è riferito a un petomane folle che «avea del cul fatto trombetta». Oggi, tra le ingiurie in via di estinzione per la costante perdita del grado di offensività, c'è «stronzo». Un po' dispiaciuto, Trifone cita il saggista Remo Bassetti, secondo il quale «nonostante l'etimologia della parola rimandi a un oggetto di solidità cilindrica, di solito l'epiteto stronzo evapora velocemente».

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