Ruggero Cappuccio ripubblica "La notte dei due silenzi": «Siamo ciò che ci manca»

Ruggero Cappuccio ripubblica "La notte dei due silenzi": «Siamo ciò che ci manca»
di Generoso Picone
Giovedì 13 Maggio 2021, 10:24
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Ci sono storie che non si chiudono neanche dopo essere state raccontate. Anche a distanza di anni, i personaggi che le hanno animate chiedono di riprendere la parola, a volte di lasciarla alla reticenza, insomma di tornare in scena. Ruggero Cappuccio si è ritrovato a governare questa istanza, che poi è diventata un'esigenza non soltanto letteraria, constatando che nella trama del suo romanzo La notte dei due silenzi pulsava la forza della parola. «I fantasmi avevano ancora qualcosa da dire», spiega ora che ha rimesso mano al suo esordio narrativo, pubblicato nel settembre del 2007 da Sellerio e quindi riproposto in forma nuova da Feltrinelli. La vicenda resta quella che parte da Villa Altomare, a Conca de' Marini, il 3 marzo 1858, con il principe Alessandro blindato nella «strana solennità della solitudine» dopo la morte dell'amatissima moglie, la marchesina Chiara della Serena, ammalata di vaiolo e ritiratasi in convento per lasciarsene consumare al riparo dagli sguardi di tutti.
L'isolamento viene rotto dall'apparizione di una donna, probabilmente Francoise d'Albret, la precettrice di Chiara, unica testimone dei suoi giorni e vincolata al segreto sulla sua sepoltura. Ma lei potrebbe essere addirittura la stessa Chiara, ricomparsa in scena davanti al re Ferdinando per scardinare «quella bugia sulla quale un buon numero di persone si mette d'accordo» che è la Storia nella definizione consegnata da Voltaire.


Cappuccio, l'edizione del 2007 si presentava nell'intreccio di vari registri: il racconto del narratore, il diario e le lettere del giovane Altomare, l'ostinazione del fratello Eugenio, le riflessioni dello scienziato Georges Bernard Descuret... E questa nuova edizione?
«La prima stesura risale a una quindicina di anni fa: scrissi il romanzo in una villa della costiera amalfitana, nei pressi del fiordo di Furore. Ho ripreso il testo l'anno scorso, durante il primo periodo di isolamento per la pandemia, nel palazzo di famiglia a Serramezzana in Cilento. Se i luoghi hanno un senso, posso dire che ho riaffermato il valore di un romanzo sull'assenza, sulla difficoltà della comunicazione, sull'inconciliabilità. Intervenendo sulla lingua, rendendola più diretta e a tratti più acuminata, ho salvaguardato e reso maggiormente preciso il significato profondo della storia: ho ridato parola ad alcuni personaggi che la richiedevano, l'ho asciugata ad altri che domandavano il silenzio. La notte dei due silenzi, così, è un romanzo intensamente attraversato da una sorta di comunicazione su basse frequenze che esalta il sentimento dell'amore, la sua idea».


Cioè?
«Noi siamo in ciò che ci manca, non in ciò che siamo.

Siamo desiderio e immaginazione, ogni persona è un flusso pluriidentitario, vale a dire composto da più personalità, che può essere messo a fuoco per pochi istanti ma che poi si perde. Puro turbamento».


Come su una scena teatrale? Lei quando esordì nel romanzo era già un affermato interprete drammaturgico, dalle regie con Muti alle pubblicazioni di «Edipo a Colono» e «Shakespea Re di Napoli».
«Io sono convinto che il teatro sia una forma di psicanalisi all'inverso. Se quella tradizionale si basa sul principio di decodificare i simboli, a teatro succede che l'autore metta in scena la propria visione onirica della storia per farla sognare una seconda volta dagli attori e quindi, per una terza volta, dal pubblico. Psicanalisi all'inverso: liberare le forze irrazionali. Le parole nascondono i pensieri, noi recitiamo con la voce di altri e il processo che si instaura conduce alla consapevolezza della verità».


Come succede in «La notte dei due silenzi». Dove lo svelamento avviene nel corso di uno spettacolo teatrale e al culmine di una vicenda che si svolge nella metà dell'800.
«L'800 è l'ultimo secolo senza disturbi di frequenza sulle persone. Mentre il 900 è il secolo che cancella l'attesa e insieme anche l'immaginazione, l'800 è il tempo dell'attesa, ancora non toccato dalla presunzione realistica che si illude di dire la verità. I meccanismi dell'attesa riescono a narrare le separazioni e producono sequenze simili alle partiture musicali».


È questo il tessuto su cui ha impiantato la trama?
«Il romanzo è una partitura musicale. Emozioni che agiscono in me. La lingua anarchica che ho sperimentato produce un movimento fiammeggiante. Una lingua di fuoco che racconta fenomeni emotivi sotterranei, parole che compongono un flusso sonoro mentale e disegnano un teatro dell'inconciliabilità attraverso i rispecchiamenti».


Intende quelli si riscontrano tra Napoli e Palermo, la monarchia e il popolo, i due amanti?
«Sono la prova dell'inconciliabilità. Si ama nell'inconciliabilità, anche nell'inconciliabilità. Se ciò non fosse, l'amore sarebbe falso».

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