di Carlo Nordio
Giovedì 30 Giugno 2022, 00:07
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Tra le cronache quotidiane della guerra in Ucraina, della crisi energetica, dell’inflazione galoppante, della progressiva siccità, della reviviscenza del Covid, della scissione grillina e delle risse politiche si è inserita, occupando l’apertura di stampa e televisioni, la sentenza della Corte suprema americana che ha ribaltato la disciplina dell’aborto. 

La reazione è stata insieme unanime, severa e momentanea. Più o meno tutti hanno stigmatizzato il verdetto definendolo, nel migliore dei casi, reazionario e bigotto, e lamentando un’umiliazione dei diritti civili in genere e di quelli femminili in specie. Ne è stato vittima anche il sistema giudiziario degli Usa, che da noi viene, a ritmi alterni, osannato o deprecato. La fiducia degli americani nella Corte pare sia scesa al 25 per cento. Questa almeno per noi è una notizia consolante, visto che quella degli italiani nella magistratura è, sia pur di poco, superiore. 

Non staremo qui a commentare il merito di questa sentenza. Sull’interruzione della gravidanza come su altri analoghi argomenti sensibili, ognuno la pensa come crede, in base alla sua etica, al suo credo o semplicemente ai suoi pregiudizi. Ci limitiamo a notare che la disciplina dell’aborto, nella plurimillenaria storia dell’uomo, è stata oscillante a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze, e non sempre è stata ispirata a ragioni di principio, come i diritti civili da un lato e i precetti religiosi dall’altro. Spesso il condizionamento è derivato dalla demografia: se nei tempi moderni la Cina ha reso l’aborto obbligatorio per ridurre la sovrappopolazione, nel secondo dopoguerra molti regimi comunisti lo punirono severamente perché riduceva la natalità e quindi la forza lavoro disponibile. 

Quanto alla sua giustificazione teorica, siamo ancora fermi a duemila anni fa. I romani ritenevano il feto “portio mulieris”, (parte della donna, benché questa frase di Ulpiano sia oggi contestata) e quindi lo consentivano. I cristiani dibatterono a lungo sul momento dell’introduzione dell’anima nel concepito, e alla fine equipararono l’aborto all’infanticidio. Il dibattito oggi non prosegue più sul piano confessionale, ma su quello scientifico. Molti biologi agnostici o atei, ritenendo che la vita nasca con il concepimento, sono contrari. Altri insistono sul diritto all’autodeterminazione della madre. La maggioranza degli Stati ammette questa scelta solo a certe condizioni. Altri la escludono del tutto. E qualcuno si domanda se non si debba interpellare anche il padre.

Prescindendo dunque da questa discussione infinita, vorremmo invece aggiungere una considerazione e una domanda, che in fondo riguardano anche casa nostra. E magari proporre una soluzione 
La considerazione. La Corte suprema di Washington non ha stravolto una legge, ma una sua precedente sentenza. Non si è sovrapposta arbitrariamente al potere legislativo, ma ha agito nell’ambito delle sue prerogative costituzionali, esercitando una sorta di “jus poenitendi”, cioè il diritto di cambiare idea. Esattamente come aveva fatto la Corte 50 anni fa, legittimando l’interruzione della gravidanza che fino a quel momento era proibita. Insomma ha fatto quello che l’ordinamento le consentiva di fare. 
Se abbia deciso bene o male, ripetiamo, ognuno può pensarla come crede, esattamente come la pensarono diversamente mezzo secolo fa le chiese e le associazioni religiose che criticarono quella sentenza ora ribaltata. 

E qui arriviamo alla domanda: è ragionevole che un tema così importante, emotivamente e socialmente controverso sia affidato alla valutazione dei magistrati? In democrazia esistono un governo incaricato di elaborare e proporre le leggi, un Parlamento investito del potere di discuterle ed approvarle, e magari un referendum come estrema e definitiva edittazione.

Ebbene, è assurdo che un manipolo di togati possa fare e disfare una disciplina così complessa e divisiva. 

E si badi: negli Usa quei giudici sono tutti di nomina presidenziale, e quindi politicamente caratterizzati. Quelli che a suo tempo legittimarono l’aborto erano essenzialmente di estrazione democratica, come questi sono in maggioranza di nomina repubblicana. Non solo: tre di loro hanno espresso la “dissenting opinion” in contrasto con il voto degli altri sei colleghi. Cosicché possiamo concludere che questa “controrivoluzione epocale ” è stata decisa da un paio di persone scelte con criteri ideologici. 
E in Italia? In Italia sta accadendo la stessa cosa: solo che qui la Corte Costituzionale interviene non solo per correggere sé stessa, ma soprattutto per rimediare all’inerzia del legislatore, che su alcune materie, vedasi il suicidio assistito, non trova il coraggio di pronunciarsi. Quanto alla magistratura ordinaria, alcune toghe si sono inventate la favola del cosiddetto diritto creativo, surrogandosi a un Parlamento mortificato. 
Concludo. L’interferenza della magistratura nell’attività legislativa è fenomeno antico. Quando Montesquieu elaborò la teoria della separazione dei poteri, e del magistrato “Bouche de la loi” la questione sembrava risolta. Ed invece si è ripresentata, con una sottile e insinuante assunzione di competenze. 
Ora la sentenza della Corte suprema americana ha riproposto il problema. La soluzione che avevamo promesso, è secondo noi la seguente: che come la guerra è cosa troppo seria per farla fare ai generali, la legge è troppo importante per lasciarla decidere ai giudici.

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