Roberto Bolle compie 50 anni. Ma sembra non aver paura di niente. Nemmeno di smettere di dover danzare. Almeno così sembra leggendo l'intervista di Natalia Aspesi su La Repubblica: «Da un po’ di anni ho iniziato una serie di altre iniziative che non sono strettamente legate all’essere ballerino. Sicuramente continuerò a portarle avanti a cominciare da OnDance, che è la festa della danza. E poi ho fatto tanti programmi televisivi. Il prossimo sarà il 29 aprile, in occasione della Giornata mondiale della danza: tornerò su Rai 1 in prima serata, con Viva la danza. Se in futuro ne avrò ancora la possibilità, sarò felice di proseguire...». Non si vuole fermare. Soprattutto non vuole smettere di divulgare il suo amore per la danza.
L'amore per la danza
E per la danza farebbe di tutto, anche smettere. «Io non mi vedo ballare sempre e comunque - racconta ancora a La Rep - Credo che ci sia un tempo per ogni cosa.
Un lavoro usurante per il fisico. «Giorno dopo giorno ti confronti con i tuoi limiti, devi cercare di superarli. E comunque il dolore è una costante». E pensare che quello per la danza non è stato un amore a prima vista come tutti potrebbero pensare. «Allora mi divertiva danzare in maniera più scatenata, come può farlo un ragazzino di 7 anni. Piano piano, però, sono entrato nella mentalità della danza accademica, più rigida. C’è voluto del tempo, non è stato un amore a prima vista. Certo, ero portato, avevo delle doti, quindi mi sono esercitato 5 anni prima di arrivare a Milano, a 12».
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L'infanzia e la famiglia
E da bambino «per me è stato difficile lasciare casa e staccarmi dalla famiglia». Suo padre aveva una carrozzeria, sua madre lavorava in casa e un po’ l'aiutava con la contabilità. «Hanno avuto una grande apertura per l’epoca, per non essere artisti, e vivendo comunque in provincia».
Ma la più grande battaglia, come racconta ancora a La Repubblica, è stata con sè stesso. Superare alcune barriere, alcuni suoi limiti: «Da bambino ero molto introverso, stavo sempre da solo. Il dovermi mettere sotto i riflettori mi ha creato disagio. Ma è servito per vincerlo, perché mi sono dovuto obbligare tante volte a essere al centro della scena. Parlare è stata un’altra barriera perché mi sentivo inadeguato».