Arrestato Raffaello. L’ascesa impossibile di un neomelodico tra canzoni antirazziste e saluti al boss

Arrestato Raffaello. L’ascesa impossibile di un neomelodico tra canzoni antirazziste e saluti al boss
di ​Federico Vacalebre
Giovedì 30 Aprile 2015, 17:02 - Ultimo agg. 17:04
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Ci eravamo illusi, come successo ormai troppe volte, che quella di Raffaello Miraggio potesse essere - almeno in «qualche» modo, almeno secondo «qualche» metro - una storia di riscatto quando, con Alessio, Vincenzino junior, Diego De Luca, Fabio Cozzolino si era messo alla testa del mucchio selvaggio postmelò, cercando di colmare il buco generazionale che si era aperto dopo il successo nazionale di Gigi D’Alessio, e la ricerca di un’identità da parte dei suoi compagni di cordata (Maria Nazionale, Franco Ricciardi, Ida Rendano, Stefania Lay, Sergio Donati, Luciano Caldore, Valentina Ok).



Dato per morto, il fenomeno neomelodico resuscitò con una canzoncella lascivo-teenageriale come «Scivola quel jeans», storia di una prima volta con tanto di sequel-seconda volta («Tirati su quei pantaloni»). Era il 2006, il ragazzo di Casoria aveva 19 anni, «Canto canzoni d’amore, sogno di arrivare a Sanremo, mi piacciono D’Alessio e Finizio, ancor più Ramazzotti», spiegava lui, a cui Rosario Armani prestava testi di amore adolescenziale e ordinaria violenza quotidiana («giura che nun t’ha vattuto... si vatte ancora ’e criature tu chiammame, te vengo a piglià» dice al telefono un fratello alla sorella), ma anche versi su una madre che raccomanda alla figlia di non seguire le sue impronte: anche lei si era innamorata di «nu guaglione ’e miez’’a via» che ora non c’è più. Da perfetto piccolo divo glocal provava a far entrare scampoli di postmodernità mal digerita tra bassi e periferie in mano a ’o Sistema, non a caso con «La nostra storia», a oggi oltre settecentomila visualizzazioni su YouTube, finì nella colonna sonora di «Gomorra» di Garrone dopo che i produttori inseguirono a lungo il suo autore, il già citato Armani, alias Rosario Buccino, perchè latitante. Raffaello sperava di poter militare in un girone diverso, di essere promosso se non nella serie A della canzone, almeno in quella C: nel 2008 si era presentato alle selezioni della rinata - e poi velocemente rimorta - Piedigrotta con «N’ato cielo», brano antirazzista di Bruno Lanza, che ha firmato brani persino per Bocelli, ed era salito sul palco di piazza del Plebiscito nel coro di giovani colleghi che affiancava Nino D’Angelo.



Ma una rondine non fa primavera: come il collega-rivale Alessio, l’assalto al cielo del pop non lo ha portato lontano, il tentativo di cantare in italiano nemmeno e i brani in cui sembrava prendere distanza da storie di malavita che avevano lambito anche la sua famiglia sono stati resi innocui, se non inutili, da storie di cronaca come quella di ieri: il 7 luglio 2011 fu arrestato per violenza e resistenza a pubblico ufficiale e porto abusivo di arma da taglio. Aveva aggredito un vigile del fuoco, poi i poliziotti che stavano cercando di prenderlo e un infermiere del 118 e quindi tentato di rubare la pistola dalla fondina ad un agente di polizia municipale. Condannato in direttissima ad un anno con la condizionale, nella notte tra il 16 e il 17 luglio dello stesso anno, restò vittima di un incidente: un auto lo travolse mentre era in moto, facendo temere per la sua vita. Ingrassato, e ormai riconsegnato ai gorghi del girone infernale neomelodico, la sua carriera lo vedeva il 25 luglio del 2012 salutare - nel bel mezzo di un’esibizione siciliana - Luigi Abbate, detto «Gigi ’u mitra», boss mafioso della Kalsa.



Solo un paio di mesi prima aveva lanciato l’album «Per sempre», forte dell’hit «Ropp fatt ammore», oltre 250.000 visualizzazioni, la metà di «Ti manca lui». Immediata ieri la mobilitazione on line del popolo raffaelliano: «Noi siamo con te», «a Raffaello ce lo teniamo noi nelle piazze, nei matrimoni, comunioni ma soprattutto nel nostro cuore». «Tieni duro cucciolo mio passerà anche questo», «Non ho parole fratellino già mi manchi», «Ti auguro presta liberta sta polizia a posto di guardare la gente che fanno gli omicidi».