Cape Canaveral celebra Rocco Petrone, l’italiano dell’Apollo 11

Cape Canaveral celebra Rocco Petrone, l’italiano dell’Apollo 11
di Renato Cantore *
Venerdì 6 Agosto 2021, 00:00 - Ultimo agg. 7 Agosto, 11:15
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Il centro di controllo del Kennedy Space Center di Cape Canaveral, la più importante e prestigiosa base missilistica del mondo, sarà intitolato a Rocco Petrone, l’ingegnere di origini italiane che fu il direttore di lancio della missione Apollo 11 e poi divenne il capo dell’intero programma per l’esplorazione della Luna. Lo ha comunicato la nuova direttrice del centro, Janet Petro, da poche settimane al vertice della base spaziale, spiegando che questa decisione rende giustizia a una personalità che ha svolto un ruolo decisivo nella grande avventura della conquista dello spazio, ma che per oltre cinquant’anni era rimasta un po’ in ombra, forse anche per via del carattere schivo e riservato. 

Come racconta il suo italianissimo nome, le origini di Petrone sono in quel sud profondo e misterioso che tanto contribuì alla grande epopea dell’emigrazione tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento. I suoi genitori, Antonio Petrone e Teresa de Luca, partirono giusto cento anni fa, nel 1921, da Sasso di Castalda, un piccolo centro tra le montagne della Basilicata. In America trovarono lavoro ad Amsterdam, una cittadina industriale a due ore di viaggio da New York. Qui, nel 1926, nacque il piccolo Rocco. Era il terzogenito, e, secondo tradizione, fu chiamato come il Santo protettore del paese di origine. Ma la sua non fu un’infanzia felice. Aveva solo sei mesi quando papà Antonio morì travolto da un treno in manovra a pochi metri da casa. Il piccolo era atteso da una vita di sacrifici alla quale non si sottrasse, sostenuto dalla madre, donna di straordinaria energia. Imponente nel fisico e vivace nell’intelligenza, appena ragazzino cominciò a pagarsi gli studi lavorando, si mise in luce alle scuole superiori e riuscì ad essere ammesso all’Accademia militare di West Point. Qui si fece apprezzare come defensive tackle nella squadra di football che vinse per due anni il campionato nazionale, oltre che per i suoi successi negli studi che spinsero l’esercito americano a farlo specializzare in ingegneria meccanica al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Già da giovane ufficiale era considerato uno dei maggiori esperti di missili e rampe di lancio, al punto che Wernher Von Braun lo volle con sé alla Nasa quando si trattò di lanciare la sfida all’Unione Sovietica per la conquista dello spazio e il presidente Kennedy indicò l’obiettivo dello sbarco dei primi uomini sulla Luna entro la fine degli anni Sessanta. 

Mandato a Cape Canaveral per lavorare alla progettazione del Saturno V, il razzo più grande mai realizzato con i suoi centodieci metri di altezza e le tremila tonnellate di peso, divenne presto il direttore di tutte le operazioni di lancio, cioè il responsabile di ogni fase del procedimento, dalla costruzione del veicolo spaziale alla realizzazione delle rampe, fino alla partenza dell’astronave.

Guidava un esercito di quasi ventimila persone, e per tutti era “la tigre”, un capo che chiedeva sempre la massima efficienza e la risposta efficace per ogni problema. Proverbiali le sue mitiche sfuriate, i controlli maniacali, le check list che prevedevano migliaia di operazioni, e le passeggiate nella sala controllo quaranta minuti prima del lancio per guardare fisso negli occhi, uno per uno, le centinaia di tecnici al lavoro nelle varie postazioni. E quel 16 luglio del 1969, alle 9,32 del mattino, quando Armstrong, Aldrin e Collins partirono per la grande avventura, al centro della firing room di Cape Kennedy, a dirigere tutte le operazioni c’era lui, il quarantatreenne figlio di emigranti diventato top manager della Nasa. 

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Del suo ruolo decisivo nella grande avventura dello spazio si è finalmente cominciato a parlare in occasione dei cinquant’anni di Apollo 11. E proprio i suoi vecchi collaboratori, o, per meglio dire, i pochi sopravvissuti di quella generazione di trenta-quarantenni che fecero la Storia, con in testa Edgar Manton, poi diventato professore all’Università del Texas, e Isom Riggel, che fu a capo delle operazioni di lancio, si sono fatti promotori della richiesta di ricordare Petrone, scomparso all’età di ottant’anni nel 2006, con una iniziativa di grande significato simbolico. Richiesta fatta propria dall’Agenzia Spaziale Americana, con la decisione resa nota oggi. Quel centro di controllo che proprio lui aveva progettato e realizzato nei minimi dettagli con un’equipe di cinquecento ingegneri, diventa ora il “Rocco Petrone Launch Control Center” di Cape Canaveral. Una notizia che, ha detto il presidente della Regione Basilicata Vito Bardi, «rappresenta un motivo di orgoglio per tutti i lucani, soprattutto per la comunità di Sasso di Castalda».

* Autore di “La Tigre e la luna” e “Dalla Terra alla Luna. Rocco Petrone, l’italiano dell’Apollo 11”. 

Del suo ruolo decisivo nella grande avventura dello spazio si è finalmente cominciato a parlare in occasione dei cinquant’anni di Apollo 11. E proprio i suoi vecchi collaboratori, o, per meglio dire, i pochi sopravvissuti di quella generazione di trenta-quarantenni che fecero la Storia, con in testa Edgar Manton, poi diventato professore all’Università del Texas, e Isom Riggel, che fu a capo delle operazioni di lancio, si sono fatti promotori della richiesta di ricordare Petrone, scomparso all’età di ottant’anni nel 2006, con una iniziativa di grande significato simbolico. Richiesta fatta propria dall’Agenzia Spaziale Americana, con la decisione resa nota oggi. Quel centro di controllo che proprio lui aveva progettato e realizzato nei minimi dettagli con un’equipe di cinquecento ingegneri, diventa ora il “Rocco Petrone Launch Control Center” di Cape Canaveral. Una notizia che, ha detto il presidente della Regione Basilicata Vito Bardi, «rappresenta un motivo di orgoglio per tutti i lucani, soprattutto per la comunità di Sasso di Castalda». *Autore di “La Tigre e la luna” e “Dalla Terra alla Luna. Rocco Petrone, l’italiano dell’Apollo 11”.

 

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