Don Rapullino: «Fujtevenne, 30 anni dopo Napoli uccide ancora i suoi figli»

Don Rapullino: «Fujtevenne, 30 anni dopo Napoli uccide ancora i suoi figli»
di Maria Chiara Aulisio
Giovedì 9 Maggio 2019, 08:52 - Ultimo agg. 10 Maggio, 08:38
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Rapullino, quel giorno in cui celebrò il funerale del piccolo Nunzio Pandolfi, e di suo padre Gennaro - autista del clan Giuliano e vero obiettivo dell'agguato - non lo dimenticherà mai. Era il 18 maggio del 90 quando, nel cuore del rione Sanità, si consumò l'ennesimo raid di camorra e a perdere la vita fu anche un bambino di due anni. Una sola colpa, la sua, quella di trovarsi in braccio al padre quando i killer fecero irruzione a casa loro sparando all'impazzata. Don Franco, era un giovane sacerdote napoletano, appena rientrato dalla città di Siena per fare il parroco nella chiesa di Santa Maria della Pace ai Tribunali, nel feudo del boss Luigi Giuliano, e il funerale di Nunzio e Gennaro Pandolfi fu uno dei primi che celebrò. Rabbia, dolore e incredulità nella stessa chiesa dove, nemmeno un mese prima, aveva benedetto le nozze della figlia del re di Forcella. A metà dell'omelia la voce del sacerdote cambiò tono. All'improvviso, come se avesse finalmente deciso di dirla tutta, gridò: Fujtevenne a Napule.
Don Franco, lo direbbe di nuovo oggi che la piccola Noemi sta lottando per la vita in un letto di ospedale?
«Rischierei di essere poco credibile anche se è esattamente ciò che penso».
Perché poco credibile?
«Una città che uccide i propri figli merita di essere abbandonata, è vero, perché non ha più niente da offrire. Quindi fujtevenne, fate bene. Il problema è un altro: dove? Il nostro è un paese sempre più affascinato dal mistero del male, da nord a sud, e non è solo una questione di politica e di controlli di polizia. Deve scattare qualcosa nelle coscienze, la scelta tocca all'uomo. Diversamente sarà tutto inutile. Cambiare città potrebbe servire a poco».

 
Vero. Però è anche vero che qui c'è una situazione di emergenza che non si registra altrove.
«Non c'è dubbio: siamo messi peggio di altri. Napoli, per quanto mi riguarda, è senza speranza, e la sparatoria in cui è rimasta coinvolta la piccola Noemi, ne è l'ennesima dimostrazione. La camorra da noi non rispetta manco i bambini. Quale codice d'onore può avere chi ha scelto il male come stile di vita? Questa è vergogna, è infamia, è malvagità. Ancora oggi mi torna in mente il nonno del piccolo Nunzio, il papà di Gennaro. Alla fine del funerale mi venne a cercare: Don Fra', vuje avita perdona' a tutti quanti. Io? - gli risposi - l'adda perduna' o padreterno. In quella frase, benché gli avessere appena ammazzato figlio e nipote, non c'era l'ombra del pentimento ma solo il bisogno di sentirsi affrancato».
Che cosa ha pensato quando ha saputo dell'agguato in piazza Nazionale?
«Rispondo con una frase biblica contenuta nel libro dell'Ecclesiaste niente di nuovo sotto il sole. Com'era vent'anni fa, così è oggi. Quello che facevano i padri adesso lo fanno i figli e poi toccherà ai nipoti loro, ai pronipoti e a tutti quelli che vengono appresso. Film già visti: si spara come nel Far West, un bambino muore, pathos, apprensione, grande caos mediatico, e poi tutto torna esattamente come prima. Una volta si chiama Nunzio, un'altra Noemi... so' passati quasi 20 anni, c'è qualcosa di diverso?».
Niente da fare, dunque.
«Uno ne salvi, cento ne perdi. All'epoca in cui ero parroco a Forcella, e l'attuale questore Antonio De Iesu era vicario, insieme riuscimmo a tirare fuori un ragazzo dalla criminalità».
Impresa non facile.
«Eppure ce la facemmo. Lo portammo dalla nostra parte, capì che la vita valeva la pena viverla come si deve e non finirla ammazzato o in galera. Oggi quell'ex ragazzo lavora in una impresa di pulizia, ha messo su famiglia e la criminalità resta solo un ricordo. Purtroppo sono casi rari. Potrei raccontarvi decine e decine di storie andate a finire molto diversamente».
Da Forcella a Chiaia. Oggi è parroco della chiesa di San Giuseppe alla Riviera, nel salotto buono della città.
«Credetemi: è tutto tale e quale. La facciata è migliore, siamo a Chiaia, ma la sostanza, il cuore, è lo stesso. E la conferma arriva da quel che succede quasi ogni sera ai baretti o in villa comunale, a due passi dalla mia chiesa: si accoltellano e si sparano esattamente come a Forcella, sui Quartieri o a Ponticelli».
Che cosa fa Rapullino?
«Pensa a lavorare in Siria e in Burkina Faso. Qui non ha più nulla da fare».
 
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