Napoli, la figlia del vigilante ucciso: «Condanne esemplari per gli assassini di mio padre»

Napoli, la figlia del vigilante ucciso: «Condanne esemplari per gli assassini di mio padre»
di Leandro Del Gaudio
Domenica 20 Gennaio 2019, 09:30
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Mercoledì mattina avrà due impegni difficile da conciliare: Marta Della Corte, 22 anni, dovrà sostenere l'esame all'università come aspirante dottoressa in Legge, ma dovrà anche attendere l'esito dell'udienza sull'omicidio del padre. Marta è la figlia di Francesco Della Corte, il vigilante ucciso a Piscinola pochi mesi fa da tre giovani balordi, tre minori che lo aggredirono alle spalle a colpi di spranga. Non avevano trovato di meglio da fare, la notte dello scorso tre marzo, all'esterno della metro Linea 1, avevano preso atto della chiusura anticipata della cornetteria e si accanirono contro il metronotte, colpendolo spalle. Tre imputati che mercoledì mattina proveranno a sfoderare il copione di sempre: la confessione (che poco aggiunge alle indagini del commissariato Scampia); la richiesta di perdono, magari in vista di una messa alla prova, di un modo rapido di lasciare cella e comunità per mettersi il passato alle spalle. Insomma, l'esatto contrario di quanto si aspettano i parenti più stretti di Francesco Della Corte, in una comunità rimasta letteralmente traumatizzata dalla brutale aggressione di un anno fa. Lo spiega al Mattino Marta Della Corte, che racconta il suo dolore dopo mesi di silenzio, ma anche l'angoscia al pensiero di una giustizia burocratica e a maglie larghe.

Marta Della Corte cosa prova a distanza di pochi giorni dal processo ai presunti assassini di suo padre?
«Incredulità, impotenza, rabbia. Sentimenti cresciuti in questi mesi, stati d'animo che condivido con mio fratello Giuseppe e con mia madre, in quella che un tempo era una famiglia felice».
 
Perché parla di incredulità?
«Più passa il tempo e più non credi a quello che ti è successo. Sono quelle cose che in genere senti in televisione, che non credi mai possibile che accadano a te e invece poi ti ritrovi senza un padre, senza il suo abbraccio, in una vicenda completamente senza senso. E non abbiamo la minima possibilità di far sentire la nostra voce: siamo assistiti dall'avvocato Marco Epifania, ma nel processo minorile non possiamo costituirci parte civile, non possiamo neppure restare in aula».

Qual è il suo timore?
«Temo che non sia fatta giustizia, che vengano concessi benefici e attenuanti, che alla fine prevalga l'esigenza di chiudere subito i conti con questa storia, mentre la nostra esigenza è un'altra».

Quale?
«Giustizia, non vendetta: una giustizia esemplare, che possa tenere in cella per molti anni gli assassini di mio padre e che possa rappresentare un deterrente per i giovani di oggi, all'insegna del rispetto di certi valori: la vita, il lavoro, il sacrificio, il sentimento, il diritto di un figlio di crescere potendo contare sulla presenza di un padre e potrei andare oltre».

Giustizia reale, una condanna esemplare.
«E non è solo un problema numerico, non è solo questione di stabilire quanti anni saranno comminati a chi verrà giudicato colpevole. Lo dico partendo da un presupposto: nessuna sentenza mi restituirà mio padre, nessuna condanna potrà restituirci il suo sorriso e il suo impegno verso la vita. Il problema è un altro: chi sbaglia deve pagare, anche per evitare che si commettano altri episodi simili».

A cosa fa riferimento?
«L'aggressione a mio padre è stata consumata dopo le coltellate alla gola del giovane studente Arturo in via Foria, poi dopo il brutale pestaggio di Gaetano a Chiaiano, in un crescendo di episodi puntualmente rappresentati dai media. Possibile che nonostante tutto ciò si possa colpire un uomo alle spalle con quella violenza, anzi, con quella indifferenza?».

Eppure, a leggere le carte depositate dagli inquirenti, sembra che ci sia stato un parziale ravvedimento dei tre imputati. Come giudica le loro confessioni?
«Sono sicuramente tardive. Nessuno di loro si è fatto avanti nei 13 giorni in cui mio padre è stato agonizzante in ospedale, nessun contributo concreto è stato offerto agli inquirenti. Quando sono stati scoperti, quando sono stati identificati e messi spalle al muro dinanzi a un magistrato, allora hanno ammesso il minimo indispensabile. E lo hanno fatto anche in modo irritante, dal mio punto di vista».

A cosa fa riferimento?
«Parlo delle intercettazioni (pubblicate lo scorso ottobre dal Mattino, ndr), quelle in cui i tre indagati condotti in commissariato ridono e si spalleggiano a vicenda, parlano di sfogo di legge, quasi consapevoli di poterla farla franca, del tanto non ci fanno niente».

Mercoledì mattina, dinanzi al giudice sono attesi tre imputati (Kevin A., Luigi C., Ciro V.), cosa pensa se uno di loro dovesse avanzare una richiesta di messa alla prova?
«Non credo sia una soluzione giusta, gli assassini di mio padre devono scontare una lunga condanna in cella, per riabilitarsi e ritrovare il senso della dignità umana attraverso lo studio, il lavoro, la formazione, purché rimangano in cella. Ne va della credibilità delle nostre istituzioni».

Cosa farà se le arrivasse una richiesta di perdono?
«La troverei tardiva ed opportunistica. Al di là della perdita di mio padre, mi fa soffrire che un uomo giovane e amante della vita debba aver rinunciato ai suoi progetti in modo tanto violento. Mi appello a quel senso di giustizia vera che va al di là di un accordo giudiziario, al di là di un timbro e al di là anche della risata di scherno all'insegna del tanto non ci fanno niente».
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