De Crescenzo, l'intellettuale del popolo e il suo riscatto

di Marco Ciriello
Domenica 21 Luglio 2019, 09:00
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Con la folla e l’amore è venuto fuori anche il dolore, non solo quello collettivo per la perdita di Luciano De Crescenzo, ma anche il suo quello nascosto e raccontato da Renzo Arbore e Roberto D’Agostino solo ora: la sofferenza patita per non-appartenenza, per il non essere mai entrato a far parte dell’élite culturale. Ma De Crescenzo, che è una idea, come ha scritto Francesco Palmieri su “Il Foglio”. 

Una idea divenuta tramite, desiderosa di una licenza che non gli serviva, un titolo che aveva ampiamente scavalcato e che pure anelava, non per arroganza, ma perché tutto era cominciato a Milano all'Ibm, dove si sentiva fuori posto. E lo spiegò, per primo, a Gianni Infusino su questo giornale: «Entrai in un complesso di inferiorità nei confronti dei milanesi, veramente drammatico e per campanilismo, per amor di patria cercavo di far capire loro: Sì, voi siete più bravi, più precisi, però noi napoletani abbiamo altre cose che voi non avete e tentavo di spiegare questa dimensione napoletana. Per avallare le cose che raccontavo e per renderle nobili le legavo alla filosofia greca che al liceo era stata una specie di passione: vedete, dicevo, noi siamo gli eredi dei greci, Napoli in fondo era una colonia greca. Raccontavo il distacco dalle Nazioni, vendevo il concetto di agorazonta, di stare nell'agorà, di passeggiare e interessarsi alle cose umane. È nata così la mia trasformazione da ingegnere a scrittore».

E la gente l'ha capito, sentiva la difesa, in una Italia differente che era divisa in due da un razzismo fatto in casa. In più come aggravante De Crescenzo era bello, un napoletano apollineo, che rideva di tutto e qua si potrebbero scomodare la poetica di Aristotele e il riso e in un balzo arrivare a Il nome della rosa di Eco e in uno scherzone del destino leggerlo come riduzione del problema decrescenziano. Un ingegnere che faceva e sapeva ridere, diventava tramite tra mondi lontani, col torto di non essere dionisiaco in una città, Napoli, che lo era e lo è tutt'ora: da Roberto De Simone a Maradona arrivando fino a Liberato. Nella contrapposizione apollineo/dionisiaco ecco la tragedia attica, quindi napoletana. E, infatti, il dispiacere non veniva dall'Italia che se ne fece una ragione davanti all'accerchiamento del romanziere, filosofo, divulgatore, fotografo, regista, sceneggiatore, attore, intrattenitore e pure cantante che riusciva a tenere insieme la leggerezza di Dino Risi, dare del tu a Fellini e togliersi lo sfizio di stare ovunque con un libro: fosse pure in un basso; tanto che in una puntata di Mixer cultura le autorità (preposte) Vattimo e Severino si arresero al fuori luogo accettandone le provvidenze del lavoro sporco, beneficiandone, a cominciare da quella sera: in un paradosso, brillavano di luce riflessa. Il problema era Napoli come disse sempre a Infusino «chi mi critica è quasi sempre un napoletano e questo è un mistero che neppure Bellavista riuscirebbe a risolvere. Enzo Golino aveva posto il veto per L'Espresso, Rosellina Balbi per la Repubblica, Luigi Compagnone soltanto negli ultimi anni ha mostrato un certo interesse per quel che scrivo, Domenico Rea un giorno mi incontra e mi abbraccia, un altro giorno mi incontra, punta gli occhi nei miei e spara un enigmatico: E io che so', 'nu fesso?». No, non era un fesso, ma uno scrittore che non riusciva a capire l'anomalia che aveva di fronte. Poi, uscendo da Napoli, sotto Vattimo e Severino, c'erano gli altri professori debolucci come critici Mario Vegetti storico della filosofia, su Alfabeta, e Gabriele Giannantoni su Rinascita, che dicevano: la filosofia è qualcosa di serio, intoccabile, nostro, soprattutto. Giannantoni scrisse: «Non si può parlare dei filosofi greci come se si parlasse di Piedigrotta». E perché no? Il problema era che De Crescenzo faceva il professor John Keating prima de L'attimo fuggente, saliva sui banchi dell'università italiana e invertiva le parti, regalando Socrate allo spazzino (come in Bellavista). Carlo Carena, che era il curatore della soggettistica di Einaudi, disse che De Crescenzo «aveva scritto con cattivo gusto e con mediocre umorismo». Sul mediocre umorismo riderebbe anche Carena oggi, almeno speriamo. Lo stigma era verso la commedia naturale di cui era figlio, verso la semplificazione: l'accademia non capiva il salto, né l'uomo. Che ne ha sofferto, ridendo. Gli altri hanno solo sofferto. È stato amato anche da vivo, dal popolo, rarità, che non legge le etichette, e che ora lo saluta, a Santa Chiara, come un re.
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