Sopravvivere al mondo con le lezioni di De Crescenzo

di Anna Trieste
Venerdì 14 Settembre 2018, 08:00 - Ultimo agg. 10:09
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Pochi napoletani sono stati accusati di alimentare e diffondere stereotipi e luoghi comuni su Napoli come Luciano De Crescenzo. Quando nel 1984 uscì il film tratto dal suo omonimo libro, «Così parlò Bellavista», l'ingegnere filosofo fu da più parti accusato di aver voluto sfruttare, con furbizia e malevola superficialità, elementi tipici della vita quotidiana napoletana per creare sketch comici e suscitare nel pubblico, specialmente non napoletano, sfottò e ilarità. Ora, volendo qui soprassedere su quanto sia pericolosa e parimenti superficiale la furia iconoclasta di chi, mirando a darsi un tono da cittadino del mondo, rifiuta tutto ciò che è sfacciatamente napoletano per poi finire con lo svuotare Napoli e la sua cultura popolare dei più importanti pilastri e simboli identitari, va detto che considerare «Così parlò Bellavista» un film comico su Napoli è riduttivo oltre che terribilmente offensivo. Ma non nei confronti di De Crescenzo, cui pure per aver definito Napoli «ultima speranza per l'umanità» andrebbe tributato un affettuoso e sempiterno rispetto, ma nei confronti di Napoli stessa. Grazie alla sua storia verticalmente e orizzontalmente composita e alla sua congenita multiculturalità, Napoli è già di per sé paradigma del mondo.

Lo aveva già scritto qualche decennio prima Malaparte ne «La pelle»: «Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli!». De Crescenzo ha «solo» completato l'opera, sceneggiando il tutto in un'opera cinematografica che più che un film comico su Napoli è una vera e propria guida illustrata per la sopravvivenza del genere umano.

Quelle che sembrano soltanto battute o gag comiche sui napoletani in realtà sono leggi storiche, economiche e sociologiche, valide universalmente.

Prendiamo ad esempio la scena dove la cameriera parla e si arrabbia con la lavastoviglie perché nonostante abbia seguito tutte le istruzioni l'elettrodomestico si rifiuta di funzionare. Qui non si sfrutta lo stereotipo della popolana ignorante che essendo a servizio a casa di ricchi signori sconta la scarsa familiarità con il progresso e la tecnologia. Semmai si dimostra, in senso quasi marxista, che nessuna macchina, nemmeno la più avanzata e la più tecnologica, potrà mai sostituirsi al lavoro pensante dell'uomo, e, in questo caso, della donna. Per non parlare del celebre discorso sulla tossicodipendenza dove Salvatore, interpretato da Benedetto Casillo, si domanda come sia possibile che a parità di prezzo un giovane scelga di drogarsi piuttosto che andare a letto con una prostituta. Non è una battuta a luci rosse, è una vera e propria lezione di diseconomia su utilitarismo, scelte e opportunità. Di fronte a un certo numero di alternative, in assenza di patologie psichiatriche, l'uomo sano di mente sceglierà sempre quella che ne massimizza la felicità. Quello non dotato di senno, definito da Salvatore non a torto «strunz», alla bellissima Natascia dei Ponti Rossi sceglierà sempre, e purtroppo, la cocaina.

E che cos'è mai il dialogo tra Bellavista e Cazzaniga sullo stereotipo dei settentrionali amanti del tè se non una lezione mirabile sul concetto di razzismo e teoria della relatività? Quando, complice l'ascensore bloccato, il milanese confessa al professore napoletano che a preferire il tè non è lui ma sua moglie che essendo tedesca è dunque più settentrionale di tutti, distrugge in un sol colpo qualsiasi tipo di assolutismo di giudizio legato alla provenienza territoriale. «Siamo tutti meridionali di qualcuno» sospira sconsolato Bellavista, che riconoscendo da napoletano doc lo status di vittima di discriminazione territoriale a un altrettanto doc milanese, ammette la propria colpa e unisce in un unico destino tutte le vittime dei razzismi del mondo. E il fatto che lo faccia in un ascensore bloccato in un vecchio palazzo di Napoli può mai essere una coincidenza?
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