Treccine o non treccine, quella preside è inadeguata

di Piero Sorrentino
Mercoledì 18 Settembre 2019, 08:00
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Alla fine Lino ci ha dato un taglio. Un colpo di forbici che si è portato dietro, assieme alle sue treccine blu, il divieto di ingresso a scuola imposto da Rosalba Rotondo, la dirigente scolastica dell'Istituto comprensivo Ilaria Alpi-Carlo Levi di Scampia. Lino può tornare in classe.

L'Ordine è stato restaurato. Le Regole sono tornate a trionfare. Eppure, in mezzo al clamore suscitato da questa vicenda, una certezza sembra stagliarsi con la nettezza delle verità che non possono dirsi a mezza voce. E la certezza è quella dell'inadeguatezza della dirigente scolastica che ha gestito questa situazione. Una incapacità che stride in modo sorprendente e inspiegabile, va detto, con il resto delle attività tra le quali alcuni meritori progetti per la scolarizzazione dei figli dei Rom promosse dalla dirigente.

Una dirigente che senz'altro, come ha dichiarato in sua difesa l'assessore all'Istruzione del Comune Annamaria Palmieri, vuole bene ai suoi alunni. Ma che è stata capace contemporaneamente di compiere il gesto più pericoloso che, in territori come quello di Scampia, un insegnante possa fare: tenere uno studente fuori, e non dentro, i muri di una classe. Spegnere, anche solo per un giorno o due, la funzione di quei presìdi viventi della democrazia e della inclusività che sono le scuole. Soprattutto al Sud. Soprattutto nelle periferie del Meridione, dove ogni giorno legioni di docenti volenterosi lottano con armi spuntate contro il Moloch feroce della dispersione scolastica.

Chiudendo il cancello in faccia a un ragazzino che si era dipinto i rasta di blu, la dirigente Rotondo ha ridotto un organismo così complesso e delicato come quello che governa il fare scuola al Sud a nient'altro che a un vuoto proceduralismo che non è servito a nient'altro se non a segnare una sconfitta di noi tutti. Perché un taglio di capelli estroso è un taglio di capelli estroso, niente di più. Non è un tatuaggio osceno, blasfemo, offensivo. Ed è imparagonabile al gesto di indossare una t-shirt inneggiante alla camorra, o a quello di apporre sullo zaino croci celtiche, o nostalgiche scritte sul fascismo. 

Ci sono gesti e gesti, e il compito principale di una comunità di adulti educanti è quello di separare il grano delle provocazioni dal loglio delle innocenti, e tenere, intemperanze adolescenziali. E poi, la retorica dell'intelligenza creativa e della libera espressione dei talenti e delle inclinazioni non scorreva a fiumi? Non ci sono stati decenni di lotte feroci per una scuola democratica, inclusiva, aperta alle diversità, capace di accogliere e non di escludere? Forse ce lo siamo già dimenticati, ma appena pochi mesi fa si erano giustamente levati gli scudi per difendere la professoressa di Palermo che era stata sospesa dopo che una sua classe aveva prodotto un video in cui veniva accostato il decreto Sicurezza di Salvini alle leggi razziali del 1938. 

Avevamo letto e detto in tutte le salse che è sacrosanta la libertà dei ragazzi di esprimere il proprio pensiero, e che la scuola deve alimentare e garantire il libero sguardo critico. Ebbene, questa preoccupante usura storica di un asse portante delle lotte per i diritti dello scorso secolo non può e non deve passare attraverso territori rischiosi come quello di Scampia. 

Non possiamo tollerare che proprio qui, nelle periferie del Sud assediate da tassi di dispersione e abbandono scolastico, sia ospitata una insostenibile contraddizione: quella di una società che lotta, o dice di voler lottare, per l'inclusione e la libertà, e di una scuola che sacrifica al totem di una rigida e inaccettabile applicazione delle Regole fosse anche una sola ora di insegnamento scolastico. 

Cosa ci sarebbe stato di sbagliato nel consentire a Lino un normale ingresso, magari aspettando con un po' di pazienza che quel colpo di testa passasse naturalmente nel giro di qualche settimana? Qui s'impara ben poco, c'è mancanza di insegnanti, e noi ragazzi dell'Istituto Benjamenta non riusciremo a nulla, in altre parole, nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto piccolo e subordinato. L'insegnamento che ci viene impartito consiste sostanzialmente nell'inculcarci pazienza e ubbidienza: due qualità che promettono poco o nessun successo: sono le prime parole con le quali lo studente Jakob von Gunten presenta al lettore del romanzo omonimo di Robert Walser la sua scuola, un inquietante luogo di potere e asservimento nel quale gli studenti si dedicano esclusivamente a ore di ripetizione mimica di tutto quello che può succedere nella vita. Un luogo nel quale, ha scritto Roberto Calasso, gli allievi non si preparano a entrare nel mondo, ma a uscirne, non visti. Che nessuno trasformi le preziose, irrinunciabili scuole delle nostre periferie in tanti piccoli istituti Benjamenta.
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