Il dramma di Arturo e l'emergenza già dimenticata

di Maria Luisa Iavarone
Sabato 17 Febbraio 2018, 23:20
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Torno ancora una volta sulle pagine di questa testata a riflettere su quanto accaduto, esattamente a due mesi dal tragico 18 dicembre 2017. Certo, è duro metabolizzare l’accoltellamento del proprio figlio: diciassettenne ferito quasi a morte da una baby-gang in una strada affollata, in pieno centro, alle cinque di un pomeriggio pre-natalizio brulicante di gente. Un ragazzo che viene brutalmente ferito senza motivo e che sostanzialmente ferito rimarrà per sempre. Ma in questa vicenda, ciò che sembra produrre mediaticamente più clamore è forse la notizia nella notizia: Arturo non è l’espressione del degrado da manuale del rischio sociale, ma il figlio di una famiglia borghese, cresciuto nelle regole, la cui mamma istruita vuole trasformare questa tragica esperienza in una questione di civiltà che riguardi tutti.

Questo impegno, non viene certo inventato nello spazio dell’elaborazione del danno, ma è il prodotto ventennale di un lavoro nel campo della ricerca educativa e didattica, compiuto in ambito sociale ed accademico. Ed è qui che l’interpretazione che sostengo torna a personalizzarsi. Ho provato a spiegare a più riprese come quanto accaduto sia l’espressione di un abissale vuoto di autorevolezza del mondo adulto, che comprende la famiglia, la scuola, le istituzioni, la politica, tutti quegli attori responsabili della trasmissione di un sistema di regole. In tutti gli incontri, e sono stati numerosi, con i rappresentanti delle istituzioni, con la stampa, con la magistratura, con gli operatori del settore carcerario (non certo solo in Tv ma in tantissimi convegni ed eventi promossi anche dalle scuole dei territori più caldi della regione Campania) non mi sono limitata a rappresentare esclusivamente il mio dolore e la mia storia personale ma ho prospettato un’analisi e un metodo e una possibile strategia di intervento. Una prospettiva non solo mia, ma condivisa con uomini e donne che hanno fatto dell’impegno quotidiano su queste tematiche la loro ragione di vita. Questo modello (e per questo scusatemi) l’ho voluto simbolicamente intestare a mio figlio e alla brutta storia che nessun altro figlio dovrebbe mai vivere. Adulti Responsabili per un Territorio Unito contro il Rischio (A.R.T.U.R.): un modello di intervento educativo integrato che, attraverso azioni di sistema, dovrebbe autenticamente tentare di contrastare il disagio minorile attraverso:
A) Costituzione di una anagrafe del rischio (in convenzione con Miur, Direzione scolastica regionale) definendo innanzitutto lo status di minore a rischio di devianza sociale, anche attraverso uno screening precoce (già dai 7-8 anni) sull’osservazione di comportamenti antisociali, condotte antinormative, atteggiamenti oppositivo-provocatori da rilevare a scuola nel corso dell’interazione socio-educativa. Niente di molto diverso da quanto già di fa per individuare alunni BES o altre forme di disabilità e svantaggio.
B) Realizzazione di percorsi di accompagnamento scolastici ed extrascolastici destinati esattamente a quei minori evidenziati dallo screening.
C) Realizzazione di percorsi di accompagnamento ai genitori di quegli stessi minori per il consolidamento di competenze genitoriali che prevedano la sottoscrizione di un “patto di responsabilità educativa”. 
D) Predisposizione di protocolli di intesa e di convenzioni interistituzionali tra forze dell’ordine, Tribunale dei Minori, Comune, Assessorati alle politiche di welfare per la realizzazione di piani di sostegno alle famiglie dei minori in difficoltà, anche mediante erogazione di un bonus per la genitorialità responsabile per quei genitori che dimostrano comportamenti adeguati nell’accompagnamento dei figli che hanno palesato condotte di rischio.
E) Previsione di misure giuridiche tese a limitare l’esercizio della potestà genitoriale per i genitori di minori che delinquono o che non onorano il patto di “responsabilità genitoriale”.
Mi rendo conto che si tratta di un progetto ambizioso, di assumere misure dure, rigorose, forse anche impopolari perché non-ideologiche. D’altra parte non si può pensare di curare un male con un’unica medicina: se una patologia è complessa bisogna affrontarla con serietà, effettuando una diagnosi corretta, comprendendone le cause ma soprattutto predisponendo una terapia adeguata con farmaci efficaci, praticando controlli periodici e assumendo comportamenti e stili di vita adeguati. Tutto questo manca in questo paese, che forse avrebbe bisogno di una “Legge Quadro sulla violenza dei minori” o forse sul diritto dei minori a diventare buoni adulti e che costringa le istituzioni a trovare soluzioni integrate, perché integrati sono i fenomeni da affrontare.
Ed è proprio qui che subentra la mia personale delusione. Dopo averne parlato a lungo oltre la solidarietà mi sarei aspettata un interesse reale da parte degli amministratori locali, dei decisori politici e dei tecnici che hanno responsabilità formali nei ruoli di governo del Comune, della Regione, del Paese perché, ricordiamolo, questo è un fenomeno che riguarda lo Stato nella sua interezza, come ha ribadito lo stesso ministro Minniti, venuto a Napoli per affrontare l’emergenza violenza minori, sempre che tale emergenza possa essere fronteggiata soltanto dal Dicastero degli Interni. Ad ogni modo, un’ulteriore delusione discende dal fatto che proprio da questa campagna elettorale non emergano proposte consistenti e focalizzate su tale questione, da parte dei vari schieramenti politici che pure avevano manifestato verso le mie stesse idee interesse, al punto da ritenermi un candidato possibile o forse semplicemente spendibile. Noto con dispiacenza che nessun dibattito elettorale pone al centro l’interesse al problema. I candidati brigando il consenso elettorale dimenticando le ragioni ed i contenuti della politica.
La mia decisione, come tutti sanno, di non accettare candidature elettorali è stata ferma e decisa. Non di meno sono in campo per restare accanto a mio figlio nel privato ma anche con un quotidiano impegno civile, mettendo a disposizione tutta la mia esperienza personale e professionale.
E allora perché fino a qualche settimana fa le mie proposte erano ritenute tanto interessanti ed ora, a liste chiuse, non lo sono state più? Forse la scelta di non candidarmi mi ha reso un soggetto non facilmente addomesticabile e quindi potenzialmente scomodo? Oggi, sono ancor di più convinta che proprio in questo momento tocca alla società civile determinare le priorità delle agende dei contenuti di chi, a prescindere dallo schieramento politico, dovrà poi prendere le decisioni, fissando l’attenzione sui problemi reali, che sono sempre più divergenti da quelli delle agende elettorali.
Ancora una volta ribadisco la volontà suprema di dare un contributo di analisi e di intervento al problema, evitando sterili insensate querelle, da parte di chi lamenta una scarsa partecipazione attiva e che però quando questa si verifica (persino mettendo a disposizione il sangue del proprio figlio) se ne infastidisce, lamentando una eccessiva sovraesposizione e troppo presenzialismo. 
Tuttavia, a zero di queste insensate polemiche, più concretamente mi chiedo: cosa è accaduto in questi due mesi, ma soprattutto cosa non è accaduto, perché forse è proprio da lì che dobbiamo ripartire per ricostruire la trama sgranata del governo di un paese che, ancora una volta, non riesce a cogliere l’opportunità di intercettare il valore dell’impegno di cittadini che rappresentano i reali bisogni di una città, non solo come un oggetto turisticamente vendibile, ma vivibile.
 
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