Senza una nuova idea di Napoli ​il virus rischia di non finire mai

di Titti Marrone
Venerdì 1 Maggio 2020, 00:00
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È un’altra Napoli quella ritratta nei cento video rimbalzati sulle nostre chat, in immagini aeree lucenti nell’azzurro di mattine nitide che le restituiscono la grazia antica, non più offuscata dall’inquinamento da polveri sottili. Un po’ ci affascina ma un attimo dopo ci angoscia, per il fatto di tenere in sospensione opportunità di lavoro, di socialità, di vita quotidiana comunitaria. Ma questa metamorfosi provvisoria e obbligata, che in una prima fase l’ha del tutto svuotata di presenze umane, è solo l’anticipo di un cambiamento ben più radicale, necessitato da un’esigenza resa inevitabile dalla pandemia. È un compito che chiama in causa il senso di responsabilità e le energie progettuali delle élites come di tutti i cittadini di Napoli, e poi di urbanisti, architetti, economisti, studiosi di varie discipline: ridisegnare la città in base a un’idea nuova, forte, adeguata al cambiamento epocale imposto a dal Covid-19.

Dev’essere chiaro a tutti che indietro non si tornerà, né tra un mese né in seguito. Perché viviamo un’emergenza grave, paragonabile ad altri snodi della vicenda storica cittadina che in passato hanno imposto svolte radicali, nuovi paradigmi di città. E non è una forzatura l’ipotesi di un parallelismo tra l’urgenza che oggi impone una diversa visione sulla città e quella nata all’indomani dell’epidemia di colera del 1884. Quella tragedia provocò a Napoli 7.994 morti e suscitò un gran dibattito che coinvolse il sindaco Nicola Amore, il ceto politico nazionale, ingegneri, urbanisti, personaggi della caratura di Benedetto Croce e Bartolommeo Capasso. Fu la futura fondatrice del Mattino, Matilde Serao, a chiamare in causa il governo Depretis con il reportage ‘Il ventre di Napoli’, lanciando l’allarme sulle condizioni igienico-sanitarie e l’esigenza di ripensare la città dei fondaci e dei vicoli appestati (“non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla”). 

Poi lo sventramento operato dalla società del Risanamento, con la costruzione del Corso Umberto, sarebbe stato a sua volta al centro di un dibattito serrato, con Matilde Serao ad assumere posizioni fortemente critiche poiché vedeva il Rettifilo come “un paravento… a pochi metri di distanza il decente e l’indecente, il pulito e lo sporco, il lusso e la povertà più abbietta”.

Facendo le dovute differenze tra la fine dell’800 e oggi, è però proprio un clima di confronto di quel genere quello di cui si sente la necessità. Per la città occorre volare alto, mobilitare intelligenze, proposte, progetti che tengano conto della complessità del luogo e della situazione generale. Di fronte agli enormi problemi posti dal rischio di nuove ondate del virus in caso di errata gestione del distanziamento fisico, non possono bastare ricettine sbrigative come quella che si limita a ipotizzare una soluzione del problema dei trasporti incrementando le piste ciclabili, in una città per giunta del tutto “verticale”. Né è certo sufficiente il suggerimento di distanziare i tavolini di ristoranti e bar. E sembra una boutade il folle proposito di chiudere al traffico arterie di scorrimento vitali tra un quartiere e l’altro per facilitare la movida in rioni residenziali ad alta densità abitativa. Ci vuol ben altro: occorre quello che da molto tempo a Napoli non si vede, vale a dire una visione nuova che disegni per intero la fisionomia della città che verrà. Se fino ad ora siamo stati costretti a farne a meno, ora non è più possibile. Né Napoli può ancora essere lasciata alla casualità di flussi turistici spontanei oggi difficili da immaginare e da gestire, o trasformata in friggitoria a cielo aperto e, di notte, in coacervo di assembramenti di centinaia di persone compresse in strade e vicoletti in assoluto contrasto con ogni norma prudenziale. Perché allora non ipotizzare, per lavoratori e fruitori della movida che freme per ripartire, la delocalizzazione in aree con una possibilità di accoglienza ampia come la Stazione Marittima, la Mostra d’Oltremare, il Molo San Vincenzo, il Parco Virgiliano? Viviamo in un territorio a densità abitativa tra le più alte d’Europa, dove la conformazione urbanistica stessa è difficilmente compatibile con la necessaria pratica del distanziamento.

Abbiamo un sistema di mobilità pubblica che già prima del Covid-19 era a dir poco insufficiente, il che non deve certo autorizzare un incremento del trasporto privato, tra l’altro foriero di nuovi inquinamenti.
Napoli ha bisogno che per lei si voli alto. Per i tanti complessi aspetti della vita cittadina, per un vero rilancio delle periferie, una prospettiva di ripresa realistica e praticabile dev’essere elaborata puntando al meglio, coinvolgendo pareri qualificati come quello dell’urbanista dell’architetto Bruno Discepolo, intervistato ieri su questo giornale dal nostro Luigi Roano. Senza un’adeguata idea di Napoli, correremo il rischio paventato ieri da Discepolo di ritrovarci, alla ripartenza, in una città “incubatrice di virus” senza fine. 



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