Coronavirus, cosa insegnano le epidemie del passato

di ​Franco Cardini
Sabato 22 Febbraio 2020, 23:00
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“A peste, fame, et bello – libera nos, Domine…” è un verso di un’antica sequenza liturgica, in realtà una litania popolare con cui il buon popolo cristiano pregava il Signore di tener lontani da lui una serie di flagelli, dalle tempeste alle invasioni delle locuste alle incursioni saracene: ma le minacce più orribili erano sempre loro, i “quattro cavalieri dell’Apocalisse”. La guerra, la fame, la peste e infine la morte, esito fatale delle altre tre. In effetti, come ha insegnato anche la storiografia moderna da Michel Mollat a Jean Delumeau, fra esse si stabiliva una tragica concatenazione. Era spesso il passaggio degli eserciti a recare ai popoli dei territori da loro attraversati qualche tragica malattia contagiosa; inoltre i saccheggi e le rapine alle guerre connessi comportavano la fame, e sugli organismi da essa indeboliti s’insediava il morbo. Ma non era nemmeno necessaria la guerra: nella lunga età preindustriale del mondo le carestie erano ricorrenti: e su corpi malnutriti e igienicamente trascurati i germi o i virus prosperavano. 

Le malattie contagiose sono antichissime compagne dell’uomo. Ma, se rapida è stata l’intuizione del loro travolgente e tempestoso diffondersi, tardiva viceversa è stata l’elaborazione d’ipotesi sulle loro cause e sulla presenza di agenti patogeni del loro diffondersi. Comune era la sensazione che fosse “l’aria” a trasmetterle e che particolari condizioni di temperatura atmosferica (il “freddo”, il “caldo”) le favorissero. 

Il fatto è che, in effetti, come il clima è dominato da una “sinusoide” che grosso modo ogni 500 anni consente il passaggio da una fase di calore più alto possibile (un optimum, come con un certo eufemismo ottimistico si ama dire) a una di massimo raffreddamento (un pessimum), così le grandi epidemie sembrano seguire analoga alternanza. E’ stato notato ad esempio che quelle in età storica qualificata come “pestilenze” (che non sempre sono però vera e propria “peste”, bubbonico o polmonare che sia) si presentano di solito sì nei mesi estivi, ma durante i periodi di generale peggioramento climatico: cioè ogni millennio circa, a ciascun ritorno del livello del pessimum. Abbiamo difatti memoria, tra VI e V secolo a.C., di una peste che fu detta “d’Atene” (o “di Pericle”) descritta da Tucidide; quindi, un migliaio di anni dopo, di quella tra VI e VII setta appunto “di Giustiniano” dal nome dell’imperatore romeno-orientale che regnava quand’essa giunse la massimo della sua virulenza e che fu descritta da Procopio; e quindi, ancora dopo più o meno un altro millennio, il terribile ciclo pandemico apertosi verso la metà del Trecento fra 1347 e 1352 - e, con punte epidemiche violentissime alternate a fasi endemiche di debole entità, giunta attraverso Quattro e Cinquecento fino al 1630. Queste due grandi pandemie (cioè epidemie a carattere molto difuso, addirittura intercontinentale) furono descritte la prima nel Decameron di Giovanni Boccaccio, che la visse in effetti a Firenze, e la seconda nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, che a metà Ottocento descrisse attraverso una buona documentazione l’epidemia del 1630 a Milano. 

Naturalmente, la nostra tradizione c’induce ancora a pensare alla peste quando si tratti di una terribile malattia epidemica e della forza irresistibile del contagio. Ma il pur temibile bacillo della Pasteurella pestis, scoperto da Alexandre John-Emile Yersin durante l’epidemia di Hong-Kong nel 1894 e chiamato per questo anche Yersinia, non ha nulla a che vedere con infinite altre affezioni non meno funeste che si sono abbattute sull’umanità in tempi moderni: o che soltanto allora sono state riconosciute come tali: il colera, il tifo, il vaiolo, la cosiddetta “spagnola”. L’assuefazione o meno poteva essere determinante: ci si “vaccinava” ammalandosi e guarendo, mentre chi non aveva passato tale trafila non ce la faceva. Nell’America latina del Cinquecento una malattia contagiosa tanto poco mortale come il morbillo, che appunto colpiva i bambini e di solito passava (morbillus: “piccolo morbo”), era tollerata con tranquillità dagli spagnoli – che ne erano appunto “portatori sani” -, ma faceva strage tra gli indios.

Le capacità di nuocere di queste affezioni, o quella degli esseri umani di resistere o meno ai loro effetti, sono commisurate a differenti fattori: primi fra i quali le difese fisiologiche interne alle strutture fisiche di ciascun individuo e che possono essere valorizzate o compromesse da molteplici fattori esterni: l’età, la salute, le generali condizioni di vita e d’igiene, i livelli di maggiore o minore densità demografica nei quali ciascuno di noi vive; e ovviamente anche i fattori socioeconomici, nel senso che in linea di massima un ricco può alimentarsi meglio e scegliere di vivere in ambienti più salubri mentre un povero dispone ovviamente di minori risorse. Si dice che la morte è uguale per tutti, ed è certo vero che si tratta di un destino comune: ma, così come si vive, càpita anche di morire peggio o meglio.

Quel che comunque colpisce quando una società è colpita da una malattia epidemica, in qualunque società e in qualunque tempo, è il suo caratteristico iter. Il contagio si manifesta sulla prima in maniera incerta e sporadica, e si tende a sottovalutarlo o a negarlo. Poi, mano a mano che si diffonde, si genera nelle arre limitrofe ai luoghi dove si presenta un’ansia sempre maggiore, che può giungere a livelli d’isteria collettiva. In questi casi succede di tutto: gli ammalati vengono fuggiti e lasciati senza cure oppure fatti segno di violenze in quanto ritenuti responsabili della loro affezione; si passa poi facilmente a teorie più o meno complottistiche (gli “untori”, le streghe o i malfattori assoldati da potenze nemiche i quali “ungono le porte” o “avvelenano i pozzi” eccetera). L’esperienza – empirica prima, scientifica poi (in Europa dal XVIII secolo) – insegna a difendersi: e allora alla farmacopea tradizionale fatta di solito di unguenti e polveri “odorose” atte a “purificare l’aria” succedono i fàrmaci efficaci. Teoria scientifica, ricerca clinica ed esperienza, alleati, finiscono col battere il contagio: anche se con inevitabili danni. 

E i risultati? Sulle prime il contagio ha effetti deleteri sia civili sia socioeconomici; poi s’impara a sfruttarlo, spesso anche disonestamente (i sani rapinano gli ammalati, i superstiti s’impadroniscono delle ricchezze e delle eredità dei defunti); infine, magari nelle “medie” o corte “durate, affiorano anche i alti positivi di tipo strutturale: dalle epidemie si esce immunizzati e irrobustiti, i vuoti lasciati nelle società dai decessi procurano nuovi lavori e abbassano i costi di certi beni specie immobili procurando ricchezza, la terra lasciata riposare a causa della rarefazione degli agricoltori torna a produrre in modo ferace. Insomma, come al solito, non sempre e non tutto il male viene per nuocere. La ricetta, in fondo, è sempre al stessa: se si è sani, cercar di evitare le occasioni di probabile contagio; se si è ammalati, far di tutto per guarire. Come al solito, il pericolo maggiore e il danno peggiore è la perdita di lucidità mentale, di razionalità, di coraggio, di speranza. Tutto passa. Vedrete che passerà anche il coronavirus, pur ammesso che davvero sia la peste del XXI secolo. Ricordate la Sars? Pareva la fine del mondo, ma si rivelò poco più che un’influenza. 

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