Se il Recovery diventa ​spartizione politica

di Giorgio La Malfa
Giovedì 3 Dicembre 2020, 00:00
7 Minuti di Lettura

Fin dalla primavera scorsa, mentre ancora non si era spenta la prima ondata della pandemia, ci si è resi conto che accanto agli interventi di “ristoro”, cioè degli interventi a sostegno delle categorie colpite dalla pandemia o dalle misure prese per limitare la circolazione del virus, serviva altro. Non si poteva evitare una pesante crisi economica, che del resto è confermata dai dati più recenti, ma bisognava pensare a un grande rilancio dell’economia italiana. Era indispensabile pensare a un vasto programma di investimenti pubblici e all’incentivazione degli investimenti privati. 

Bisognava investire nella sanità, che si era mostrata uno dei punti deboli del sistema, ma anche nella scuola e nell’Università, nell’innovazione, nella trasformazione delle industrie in linea con le nuove esigenze dell’ambiente, nell’ampliamento della possibilità dei cittadini di accedere alle reti digitali. Ma tutto questo andava ben oltre le possibilità di un singolo Paese, soprattutto di un Paese che porta con sé un carico di debito pubblico come l’Italia.

La risposta poteva venire solo dall’Europa, se essa si fosse resa conto che rischiava di essere frantumata dalla crisi. Il Governo italiano si è rivolto all’Europa. Si è chiesto che l’Europa (e la Banca Centrale Europea) non facessero come nel 2008 quando avevano distolto lo sguardo dai problemi che la grande crisi aveva creato nei vari Paesi e si erano limitate ad ammonire che i bilanci pubblici andavano tenuti in ordine. Stavolta serviva la solidarietà europea. Se no, sarebbe stata la prova che ciascuno doveva fare da sé, come predicavano la Lega, i Fratelli d’Italia ed anche i 5 Stelle prima maniera. 

Questa volta, l’Europa ha capito. Forse perché la pandemia ha colpito tutti. Forse perché l’economia europea è ormai così integrata che se chiude una fabbrica in Veneto, smetta di produrre anche una fabbrica in Germania, la Cancelliera Merkel ha portato a un passo in avanti finora inimmaginabile. Forse anche grazie al fatto che in Italia, nel frattempo, erano stati o si erano confinati all’opposizione i partiti più antieuropeisti e che l’Italia mandava a Bruxelles dei segnali nuovi, l’Europa si è mossa.

A maggio la Commissione Europea ha parlato di un Recovery Fund europeo, cioè di un programma europeo per la ripresa economica del continente. Lo ha chiamato Next Generation EU, con ciò alludendo a un programma fondato sugli investimenti i cui benefici saranno sentiti dalle Nuove Generazioni ed ha rotto il tabù del debito europeo. Il Next Generation EU raccoglierà 750 miliardi di euro sui mercati e li distribuirà fra i paesi membri non in ragione delle formule meccaniche di ripartizione del bilancio, ma sulla base delle necessità, cioè delle conseguenze economiche della pandemia nei vari Paesi. E poiché l’Italia ha avuto, con la Spagna, la perdita maggiore il piano prevede che ci vengano assegnati fino a 209 miliardi di euro, fra contributi a fondo perduto e prestiti a basso tasso di interesse. L’unica condizione è di investire in alcuni settori che l’Europa giudica fondamentali: l’economia verde, il digitale, l’economia digitale e che sia certificato che si tratta di buoni investimenti.

Questa è la storia, scusandoci per avere ripercorso cose largamente note. Ma qui viene la nota dolente per l’Italia. Abbiamo sollecitato una risposta europea, L’abbiamo ottenuta. Ne siamo i principali beneficiari. Lo sappiamo dalla fine della primavera e sappiamo che si tratterà di oltre 200 miliardi di euro. Per dare un’idea della cifra, è quasi il 20 per cento, un quinto, del reddito nazionale di quest’anno da spendere nei prossimi tre anni. È più dei fondi del piano Marshall che avviarono il nostro miracolo economico. Per dare un’idea ancora più concreta di quello di cui parliamo: la ricostruzione del Ponte Morandi di Genova è costata – si calcola – circa 200 milioni di euro ed è stata completata in un anno fra la posa della prima pietra e l’inaugurazione del ponte. L’Europa ci dà fondi per 1000 Ponti Morandi. Potremmo fare lavorare 1000 maestranze, 1000 industrie come quelle che hanno lavorato a Genova negli ultimi 12 mesi. Potrebbero già lavorare, recuperando poi dalla Commissione i soldi che anticiperemmo.

Il Paese potrebbe respirare. Che cosa aspettiamo?

Dovremmo essere già avanti, molto avanti, con il Piano. Dovremmo almeno sapere chi può presentare progetti, quali regole obiettive verranno utilizzate per scegliere se quei progetti sono i più efficaci, dove e da chi vengono fatte queste analisi, chi realizzerà le opere. Sono domande che questo giornale ha posto più volte senza risposta da maggio in avanti. Sono domande senza risposta. E dunque l’Italia è in ritardo. 

Sabato, cogliendo l’occasione del discorso di inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, la signora von der Leyen lo ha detto senza mezzi termini ed ha anche spiegato che se l’Italia farà male, il danno non sarà solo nostro. Sarebbe la pietra tombale sulle speranze di un’Europa solidale, capace di affrontare i problemi come se essa fosse un grande stato federale. Del resto, rispondendo in televisione alla domanda di una giornalista, il presidente del Consiglio aveva francamente ammesso lunedì scorso che “qualche ritardo” si è verificato.
Ma a che punto è in realtà il programma italiano? Per quello che se ne sa, potrebbe non essere successo nulla finora in seno al Governo. Non si sa chi e dove stia lavorando sul progetto e in bas e a quali regole. In realtà, invece, qualche giornalista è riuscito a penetrare la cortina di silenzio ed ha scoperto che la Presidenza del Consiglio ha affidato il lavoro di preparazione del piano a dei funzionari pubblici che sono vincolati a un segreto assoluto sulle loro attività.

Qui bisogna intendersi. Se si può capire che la fase delle scelte specifiche fra i vari progetti che aspirano a un finanziamento possa essere riservata, anche per evitare o almeno limitare le troppe pressioni degli interessi costituiti, le procedure e le regole debbono essere chiare e trasparenti. Si può decidere che sia segreta l’istruttoria del piano, ma non può essere segreta la formazione del piano, cioè chi lo prepara, sotto la supervisione di quale autorità politica, con quali direttive. Ed anche le istruttorie possono essere riservate mentre si svolgono, ma debbono svolgersi sulla base di regole chiare. I parametri con i quali verranno valutati i progetti debbono essere conosciuti, perché nell’elaborare i progetti gli interessati debbono sapere quali sono gli obiettivi da realizzare e come verranno valutati i contenuti dei piani.

Se è segreto tutto, gli obiettivi, gli autori, i parametri i criteri, si assegna un potere eccessivo a chiunque lo detenga e si creano le prmesse di una insoddisfazione generale. Di essa del resto già si colgono i segni in seno al Governo e alla sua maggioranza. Noi vogliamo segnalare che una insoddisfazione ancora maggiore potrebbe manifestarsi domani a buon diritto nella pubblica opinione.

Vi sono segni evidenti che il Governo non ha dedicato la riflessione necessaria a come impostare il problema. Ha proceduto e procede con l’idea di mantenere per sé la più ampia discrezionalità e di cederne dei pezzi (o dei pezzettini) solo quando vi è costretto. La prova è la vicenda dell’articolo contenuto nella legge di bilancio che regola per legge il monitoraggio sui progetti affidati nelle varie amministrazioni pubbliche, ma tace su tutto quello che vi è a monte di questa assegnazione, cioè tace sulle regole principali del gioco. 

Di fronte alle contestazioni, ora il Governo ha fatto sapere che potrebbe aggiungere un articolo alla legge dii bilancio per precisare la parte che manca (che è la parte principale) . Ma come? Un emendamento alla legge di bilancio? Da votare con la fiducia? Questa non è materia per pasticci legislativi da votare a scatola chiusa.

La via che riteniamo più ragionevole è di convocare una sessione parlamentare non appena approvato il bilancio – una dedicata esclusivamente al Next Generation EU. Il Governo si prepari seriamente a questa sessione: definisca le procedure e le regole e le comunichi al Parlamento. Se vuole le discuta al suo interno prima. Ma non faccia l’errore di ritenere di potere procedere come ha fatto finora. 209 miliardi possono essere una grande occasione per fare ripartire l’Italia. Ma se il problema diventa quello di ripartirli fra il Governo e i partiti di maggioranza, il fallimento è dietro l’angolo.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA