La campagna elettorale ​fa male alla crescita

di Enrico Del Colle
Giovedì 20 Febbraio 2020, 00:00
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Se consultiamo una qualsivoglia enciclopedia, alla voce “debito pubblico” leggiamo che si tratta di “quello contratto dallo Stato, secondo apposite norme di diritto pubblico, ottenendo denaro a prestito dai privati per sopperire a necessità per le quali non bastano gli introiti fiscali”. Seguendo questa impostazione lo Stato del nostro Paese presenta a fine 2019 un debito di poco più di 2409 miliardi di Euro (fonte Bankitalia). 

A questo punto la domanda sorge spontanea: nei confronti di chi è debitore e, poi, è un debito sostenibile? Diciamo subito che i creditori sono prevalentemente residenti nel Paese (più del 70% tra famiglie e Istituzioni) e, quindi, in un meccanismo molto liquido, buona parte dei cittadini italiani è al tempo stesso debitrice (come componente dello Stato) e creditrice verso lo stesso Stato, avendolo finanziato, ad esempio, mediante la sottoscrizione di titoli emessi da quest’ultimo; il restante 30% del debito è nelle mani di abitanti di altri Paesi. Questa situazione tutto sommato rende il Paese credibile, tanto è vero che i titoli messi sul mercato vengono acquistati senza particolari problemi (anche se, occorre dirlo, i tassi di interesse sul nostro debito, seppur ridottisi ultimamente, restano tra i più alti in Europa e, pertanto, più remunerativi). 

Ma fino a quando saremo credibili? In altre parole, quanto può crescere il debito per ritenerlo ancora sostenibile? Questi interrogativi sono di fondamentale importanza anche alla luce del fatto che spesso viene confusa la credibilità del Paese con la “faticosa” possibilità di onorare i propri debiti. Spieghiamo meglio: tutti i Paesi Ue (e non solo) mostrano una condizione debitoria non indifferente e quello che un mercato globalizzato osserva, per considerare credibile un Paese, attiene principalmente alla capacità di crescere, cioè di creare ricchezza con la quale, tra l’altro, pagare i debiti; ebbene, come si misura la crescita di un Paese?

Naturalmente con quello che si produce (ovvero il Pil) e allora osserviamo che nell’ultimo ventennio (2000-2019), l’Italia è transitata da un Pil di circa 1250 miliardi a 1765 (fonte Istat) – a prezzi correnti - con un incremento medio annuo di poco più del 2% (appare evidente che essendo un dato medio, esso “compensa” variazioni positive con quelle negative avutesi nel periodo osservato), essenzialmente dovuto, tuttavia, alla dinamica inflazionistica (al netto di quest’ultima, infatti, l’incremento medio è stato dello 0,2%, avanzando da circa 1660 a poco più di 1720 miliardi); nel medesimo arco di tempo il debito pubblico, invece, è aumentato mediamente di circa il 4% annuo, cioè con un ritmo quasi doppio (era poco meno di 1400 miliardi nel 2000, dati Bankitalia) ponendolo ad un livello rispetto al Pil pari a più del 135% (80, 1% la media Ue, 61,2% la Germania e il 100,5% la Francia). Una tale situazione ha determinato (e continua a farlo) non soltanto una spesa per interessi che in questi ultimi anni assorbe in media ben 60 miliardi annui circa, ma ha anche impedito di dedicare risorse ad altri settori della società. Anche gli investimenti hanno frenato, dato che ammontavano a circa 350 miliardi all’inizio del secolo ed ora si aggirano intorno ai 320 miliardi (con una riduzione media annua dello 0,5% circa, dati Istat). 

Ora siamo a poche settimane dalla presentazione del Def (documento-cornice da presentare ad aprile e che comprende i più significativi provvedimenti che saranno presenti nella manovra economica d’autunno) e le misure in cantiere sono numerose: si va dal piano per il Sud, essenziale per rilanciare l’intero Paese (sono previsti 21 miliardi nel triennio 2020-2022) al Family Act (16 miliardi nel 2021), dalla riduzione dell’Irpef (non ancora quantificata ma solo per la riduzione del cuneo fiscale, già approvata, sono stanziati 5 miliardi) ai contratti per il pubblico impiego (6 miliardi già ritenuti insufficienti dai sindacati), per arrivare alla “sterilizzazione” dell’Iva (20 miliardi salvo possibili ma difficili rimodulazioni) e alle risorse per “quota 100” e Reddito di Cittadinanza (previsti non meno di 8 miliardi). Appare chiaro che siamo in presenza di un insieme di interventi difficilmente realizzabili nella loro interezza anche perché il 2020 è iniziato con una persistente stagnazione e la stessa Commissione Ue ha recentemente stimato che l’Italia si pone all’ultimo posto per crescita in questo anno e pure nel prossimo (0,3% e 0,6% rispettivamente, contro una media Ue pari all’1,4% con la Germania e la Francia all’1,1% e la Spagna all’1,6%). 

Ad aggiungere ulteriore pessimismo per l’andamento della Finanza pubblica nell’anno in corso arrivano le considerazioni di Confindustria e della Corte dei conti, le quali, oltre a confermare un sostanziale ristagno dell’economia, suggeriscono cautela e valutazioni attente sui rischi di possibili scarti dal percorso di miglioramento del bilancio volto a porre il debito pubblico su una traiettoria stabilmente decrescente (e non ondivaga). Il ministro dell’Economia Gualtieri prova a gettare acqua sul fuoco registrando, tra l’altro, un seppur lieve miglioramento dei conti pubblici dovuto ad un fabbisogno 2019 inferiore al previsto anche se, è bene ricordarlo, si tratta, in ogni caso, di un incremento di debito e non di un vero e proprio risparmio di risorse.

Cosa fare quindi? Il governo, pur ribadendo le difficoltà dell’attuale situazione, appare fiducioso e conferma i preventivati interventi sui principali dossier senza però specificare, al momento, dove saranno individuate le risorse necessarie. Siccome i meccanismi economici, molto spesso, agiscono in maniera silenziosa, ma non sono mai assenti, appare quanto mai opportuno individuare al più presto le priorità e le indispensabili risorse per attuarle, avviando finalmente un duraturo percorso di crescita, senza lasciarsi “guidare” dalle continue campagne elettorali. Solo così facendo si potranno evitare possibili manovre di assestamento (e procedure d’infrazione) o, ancora peggio, il ricorso ad un ulteriore coinvolgimento delle nostre famiglie; ciò arrecherebbe ad esse un danno, forse, non sopportabile, visto che, non dimentichiamolo, già “sostituiscono” pesantemente lo Stato nel sostenere, mediante una particolare forma di welfare familiare, i componenti più fragili (giovani e anziani), in un Paese già “provato” sul piano demografico da una forte contrazione delle nascite e da un inarrestabile invecchiamento della popolazione. 

 
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