Forcella, basta «stese» e armi
la pax mafiosa dei Mazzarella

Forcella, basta «stese» e armi la pax mafiosa dei Mazzarella
di Viviana Lanza
Venerdì 17 Giugno 2016, 00:13
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 I colonnelli dello storico clan Mazzarella stanno tornando a Forcella per riprendere il controllo degli affari illeciti e gestirli come la vecchia scuola di camorra ha insegnato loro a a fare, senza clamori e senza rumore, nell’ombra, cercando di attirare il meno possibile le attenzioni di forze dell’ordine e nemici. Si fa leva su uomini tornati in libertà di recente, su affiliati di un tempo, insomma non più su ragazzini imprevedibili. Eccola Forcella il giorno dopo la sentenza che ha inflitto 43 condanne alla paranza dei bimbi e un anno dopo gli arresti che hanno fermato la scalata violenta dei babyboss. Nei vicoli non si spara più a caso, le “stese” non sono più la routine né si assiste ad atti di forza eclatanti come quelli che fino a un anno e mezzo fa hanno caratterizzato la vita nella casbah. Non vuol dire che la guardia si sia abbassata del tutto, ma è un segnale. C’è una tensione diversa, ci sono equilibri da ricomporre e affari da riprendere per non lasciare un vuoto di potere nel centro storico. Difficile ipotizzare un’avanzata da parte di clan di altri quartieri, ragionano gli inquirenti.

Lì, in quel budello di vicoli e vicoletti, di bassi e palazzi che affacciano uno sull’altro, appare quasi impensabile un’incursione da fuori, da parte di chi non è della zona. Più probabile che i Mazzarella, che avevano conquistato un trono nella casbah già verso la metà degli anni Novanta con il matrimonio del loro rampollo Michele con Marianna Giuliano, figlia di Loigino, stiano studiando come ritornare e assumere di nuovo il pieno controllo su pizzo e droga. Possono contare su vecchi affiliati e su qualche luogotenente che nel frattempo, pagato il conto con la giustizia, è stato scarcerato e può tornare a muoversi liberamente tra i vicoli e i quartier generali della camorra che conta. Restano i Giuliano che, sebbene duramente colpiti dalla sentenza che ieri ha disposto la condanna per sette su nove componenti della famiglia coinvolti nelle indagini dei pm Francesco De Falco e Henry John Woodcock del pool Antimafia, non avrebbero mai abbandonato il loro ruolo criminale nel quartiere, occupando uno spazio oggi molto ridimensionato.

Alcuni della famiglia hanno ripreso l’attività di magliari, ossia la vendita porta a porta di prodotti all’estero, soprattutto nell’europa dell’Est, affare storico che rende meno della droga ma comporta meno rischi. «Alla fine stiamo facendo i magliari - dicono intercettati, due cugini dei Giuliano di Forcella - storto o morto non è niente di chi sa che ma...», si commenta e i dialoghi sono finiti agli atti del processo conclusosi l’altro giorno. «Oggi so comprare per esempio dieci magliette e vado dai compagni miei, uno dà una mano, uno dà un’altra e le vendo e mi guadagno qualcosa, prima ero più piccolo e non lo sapevo fare nemmeno». Sembrano lontani i tempi degli spari tra i vicoli per dire «Ci siamo», delle azioni di forza al grido di «Forcella ai forcellani», degli agguati per vendicare offese o sguardi di troppo, una sigaretta negata o un no a vendere droga per conto dei babyboss. La Gomorra a Forcella non ha avuto bisogno della fiction per sperimentare la ferocia criminale e alzare il livello della crudeltà e della sfrontatezza, della prepotenza e della volgarità.

Quando decisero di scalzare i fedelissimi dei Mazzarella a costo di scatenare una guerra, i boss ragazzini, uniti nel cartello Giuliano-Sibillo-Brunetti-Amirante, sceglievano killer minorenni («è una tecnica dei nuovi Giuliano, quella mandare i ragazzi più giovani a sparare, i minorenni» ha svelato un pentito), provavano le armi nuove in strada mirando persino ai passanti e per colpire il clan rivale mettevano in conto di aprire il fuoco anche a costo - come è accaduto in due circostanze - di coinvolgere un innocente. Finora le indagini non hanno consentito di provarlo, ma è forte tra gli inquirenti il sospetto che in questo scenario vada inserita l’assurda morte del 26enne georgiano che la sera della Vigilia di Natale di due anni fa mentre era sul divano di casa a guardare la Tv, al quarto piano di un palazzo in via delle Zite, fu centrato alla testa da un proiettile vagante, arrivato dalla strada. Dinamica agghiacciante, storia di una Gomorra reale.

Vita a Forcella tra i vicoli resi inferno da criminali ragazzini che hanno venduto droga, e che a volte l’hanno pure presa per darsi più adrenalina, che hanno speso migliaia di euro in champagne e discoteche, abiti griffati e pistole, che si sono fatti pagare 100 euro per scendere in strada e sparare e magari anche uccidere, che si sono vantati della loro ferocia e delle pistole sempre nuove che impugnavano («Non tengo una pistola con un poco di ruggine intorno»), che alla diplomazia hanno sempre preferito le armi, che volevano fare i capi e si sono ritrovati a fuggire dagli 007 dell’Antimafia, che alla fine li hanno stanati tutti e arrestati, e dai killer dei clan nemici, che li hanno colpiti e lasciati cadavere sull’asfalto di un marciapiede dove c’è sempre chi si volta dall’altra parte. «Chiavai una botta in petto a un nero» confida uno dei giovani Giuliano al cugino. «Cadde a 20 metri il nero». «Aeh, eh..». E seguono risatine. Hanno ferito un cittadino del Bangladesh con un colpo di pistola in petto solo per provare l’efficacia dell’arma. Il povero indiano se l’è cavata con 20 giorni di convalescenza ma ha rischiato la vita. «Mi vuoi far provare quella sette?»: l’idea di testare la pistola nuova era venuta così, all’improvviso, parlando del più e del meno mentre tutta la famiglia è riunita in casa Giuliano in vico Carbonari, la sera della Vigilia di Capodanno poco prima del cenone.

«Vedi di non perderla...», era stata l’unica raccomandazione captata dalla microspia grazie alla quale si sono ricostruite, quasi in tempo reale, molte delle azioni del gruppo. Forcella e l’omertà. In questo grigiore, uno spiraglio di luce sembra darlo la storia di Dora, trentenne e tre figli piccoli a cui fare da madre e da padre. L’ultima è nata pochi giorni dopo la morte del marito, ucciso in un agguato di camorra perché - lo hanno ricostruito le indagini e una recente sentenza lo ha confermato in primo grado, condannando all’ergastolo il presunto killer - aveva rifiutato di gestire una piazza di droga per i Giuliano-Sibillo, avendo deciso, dopo una condanna scontata in carcere per legami con il vecchio clan Misso della Sanità, di chiudere con il malaffare e mettersi a lavorare per la ditta di costruzioni del padre lontano da Napoli, in Veneto. Dora è la moglie di Massimiliano di Franco, ucciso il 26 febbraio 2014 in via Porta San Gennaro. Ha avuto il coraggio di denunciare il presunto assassino del marito, raccontando cosa accadde nei giorni che precedettero l’agguato e quando il marito agonizzante annuì alla domanda di lei: «E’ stato Alessandro?».

Dora da allora continua a vivere nel suo quartiere, nella sua casa a pochi metri dal luogo dell’agguato al marito e dalla casa dei familiari di Alessandro Riccio, il giovane accusato di essere il killer di Di Franco.
Ha avuto coraggio e ne ha ancora, esempio di come la disperazione e il dolore possano essere più forti dell’omertà e della paura. Eppure più volte agli inquirenti ha manifestato le sue preoccupazioni per gli sguardi truci che deve sopportare. Non è facile e sembra anche un controsenso. Ma nella Gomorra dei vicoli accade anche questo. E si tira avanti.
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