I 60 anni di Giancarlo Siani, giornalista e uomo per bene

di ​Pietro Gargano
Mercoledì 18 Settembre 2019, 22:31
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Avrebbe qualche filo d’argento sulle tempie. Avrebbe lo stesso sorriso cancellato dalla raffica di camorra. A mezzogiorno non cercherebbe una allegra trattoria da dividere con i colleghi, perché intanto avrebbe messo su famiglia. Magari discuterebbe dell’affanno dei sindacati, a lui tanto cari. 
Oggi Giancarlo Siani avrebbe compiuto sessant’anni, l’età dei primi bilanci. Che cosa penserebbe di questa città tormentata, di questo mondo tanto sbandato e incarognito?
Non lo so, nessuno può saperlo, ma chi lo conosceva può intuire la sua delusione. Lui, più di vent’anni prima di “Gomorra”, raccontò gli orrori della malavita. Non lo fece in un libro ma, giorno per giorno, nelle pagine del Mattino. 
Denunciò il sanguinoso strapotere della criminalità e del degrado, l’assalto dei cementieri, la selva oscura di sigle dietro ogni affare, i progetti faraonici. Un anno prima di morire, a proposito della manifestazione dopo la strage detta di Sant’Alessandro, aveva scritto: «Una piazza rabbiosa impedisce al sindaco Bertone di parlare. Durante il corteo si crea un vuoto tra gli striscioni degli operai e le autorità. “La vera camorra? È lì sul palco” rispondono alcuni giovani che passano da lontano senza fermarsi». Gettava ombre di dubbio sulle stesse classi dirigenti. Nell’ultimo pezzo, apparso il giorno prima della morte, scrisse che erano stati assoldati dei ragazzini, i muschilli, per spacciare la droga. Aveva intuito la minaccia che pesava sugli adolescenti della città bassa.
Divenne un pericolo, un bersaglio ben visibile, unico. Così lo ammazzarono la sera del 23 settembre 1985. Se si fosse investigato a fondo su quanto aveva scritto di rischioso per le cosche - il tradimento, la conversione mafiosa dei camorristi - e se tutto ciò fosse emerso in chiare denunce forse sarebbero cadute le ragioni stesse per condannarlo a morte. Il filo del ragionamento conduce al rimorso, costante compagno dell’ultima inchiesta investigativa condotta tanto tempo fa dal Mattino, fino alle condanne degli assassini. Si lavorò in stretto raccordo con magistrati e investigatori, indipendentemente ma nello stesso spirito, e anche questa è un’indicazione utile per il domani. Nei momenti avvelenati, l’antidoto possibile è l‘alleanza fra le persone perbene.
Quindici anni furono consumati per avere giustizia - almeno quella dei tribunali, almeno quella che riguarda il secondo livello della criminalità - con l’ergastolo definitivo a mandanti materiali ed esecutori del delitto. Qualcuno trovò minimo il movente dell’omicidio: qualche riga per denunciare il tradimento del boss Nuvoletta ai danni di Gionta. E invece quell’articolo fatale è un’altra prova della bravura: sapeva che quelle cosche erano direttamente collegate alla mafia di Totò Riina. Era una novità cruciale, solo mesi dopo la notizia apparve in un rapporto riservato dei carabinieri. Il boss di Marano, nella sua mentalità mafiosa, non poteva permettere che una denuncia di tradimento restasse impunita.
Quel crimine avrebbe dovuto avviare un processo anche morale per individuare e curare le piaghe infette di tanti anni d’ingiustizia. Non è accaduto, anzi molto si è fatto per inquinare ancora. Sono stati gli studenti - con la famiglia, gli amici e il Mattino - a onorare la memoria di Giancarlo, a farne un’icona di giustizia possibile. Gli studenti colsero la portata dell’esempio venuto da uno di loro: non un eroe, ma una ragazzo che aveva fatto le cose giuste con semplicità, senza piegarsi. Non dovrebbe essere finita, resta tutto il contesto. Ma si ha l’impressione dolorosa che la città abbia perfino meno voglia di ieri di fare i conti con se stessa.
Lo stillicidio dei giorni non ha tolto attualità a quell’impasto di dolore e rabbia, di rimpianto e rimorso, di errori e depistaggi, di muri di gomma e passione civile che va sotto l’etichetta di caso-Siani. Resta la lezione per noi giornalisti, l’eredità morale di un giovane cronista caduto sul lavoro. Cresciuto in una famiglia cattolica, animato da un rigoroso senso del dovere, Giancarlo affrontò il giornalismo con lo stesso spirito col quale affrontò il Settantasette e il volontariato: rifiuto di ogni ingiustizia, racconto trasparente di quanto vedeva e sapeva, senza mai porsi limiti. Fece ciò che ogni cronista dovrebbe fare.. Eppure finì per rappresentare un’eccezione pericolosa, restò isolato. La sua breve parabola dimostra l’esattezza di una massima di Kapucinsky, il massimo inviato del ‘900: «Un bravo cronista dev’essere innanzitutto una brava persona». Chi sa, forse Giancarlo imbiancherebbe di nuovo la sua faccia con i segni della pace.
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