Il contratto che regola ma non unisce

di Massimo Adinolfi
Domenica 20 Maggio 2018, 22:23
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Fumata bianca: habemus premier. E il premier è un professore di Diritto privato, Giuseppe Conte. Il nome che Di Maio e Salvini proporranno oggi al presidente della Repubblica ha un indubbio spessore sotto il profilo professionale, anche se è nuovo alla politica. Non è stato eletto né scelto dagli italiani: questa, che per la retorica degli stessi leghisti e pentastellati sarebbe stata fino a ieri una seria obiezione, diventa invece una nota a favore, perché dimostra la disponibilità a cercare un punto di equilibrio e a fornire qualche elemento di rassicurazione. 
Dopo gli sfracelli annunciati nelle prime bozze programmatiche, è un modo per garantire passi più meditati all’esordio di un governo assolutamente inedito per la sua composizione parlamentare.
Di Maio e Salvini si accomodano probabilmente nelle poltrone di ministro, ma non nelle seconde file. Sono loro ad aver infatti siglato l’accordo di governo, sottoposto nel weekend al voto di militanti ed elettori. Ma qui sta una stranezza, che rischia di lasciare il segno sull’azione del governo. I cittadini che si avvicinavano ai gazebo della Lega per informarsi circa i contenuti dell’accordo ricevevano infatti una scheda in cui non si offriva loro una sintesi complessiva del documento elaborato dalle parti, ma solo l’elenco dei punti che la Lega giudica qualificanti: non anche quelli che i cinquestelle hanno, per parte loro, inserito nel contratto. È già singolare che le due forze politiche abbiano scelto la forma privatistica del contratto per vincolarsi reciprocamente. Lo è ancor più questa maniera dimezzata di chiedere il consenso. Evidentemente, non era bello ricordare alla vecchia base elettorale nordista che nel programma sono contenute cose come il reddito di cittadinanza, destinato a finire nelle tasche dei disoccupati del Sud.
In un simile, parzialissimo ritaglio, sta purtroppo una logica che rinuncia programmaticamente alla definizione di un interesse generale. Ognuno porta a casa la propria parte di bottino, e su questa parte soltanto si impegna. Non diversamente i due partiti procederanno nella divisione dei dicasteri (su cui il futuro premier ben difficilmente metterà parola, qualunque cosa dica, al riguardo, la Costituzione). Alla Lega interessa dare una stretta in tema di immigrazione, e quindi si prende il ministero dell’Interno. E siccome deve pure tutelare gli interessi degli agricoltori del Nord, anche alle politiche agricole deve andare un leghista. Non diversamente il Movimento punta a imprimere una svolta ferocemente giustizialista in tema di corruzione, e dunque a via Arenula ci va un ministro pentastellato. E così via, in una divisione del campo in cui, al limite, si può forse dire che Lega e Cinquestelle non si propongono di governare lo stesso Paese, ma se lo spartiscono accuratamente, secondo le rispettive aree di influenza. Una Yalta nostrana, un governo diviso in blocchi.
Questo non vuol dire che Lega e Cinquestelle non operino su un terreno comune. Ma quel terreno è trovato alla stessa maniera: che cos’è infatti l’antieuropeismo che trasuda dal contratto, se non l’idea che l’Europa non può essere il risultato di un processo vero di integrazione, ma al più un rapporto di cooperazione tra partner fra loro esterni, se non estranei l’uno all’altro, in cui dunque ogni Stato presidia per differenza da tutti gli altri solo i propri interessi? Il sovranismo non è infatti la generica rivendicazione del primato della sovranità nazionale; è, più radicalmente, il rifiuto di definirne i lineamenti in un più ampio quadro sovranazionale. È l’idea stessa che vi possano essere istituzioni o parti della legislazione sovraordinate a quella nazionale che ispira infatti il motto trumpiano della Lega: «Prima gli Italiani!». Motto che il M5S non deve aver a dispetto, se ha potuto stare praticamente per tutta la legislatura al fianco di Farage e dei nazionalisti antieuropeisti. 
La filosofia è insomma la stessa, a qualunque livello: quella di un sacro egoismo in cui ci siamo noi e ci sono loro, e noi parteggiamo per i nostri e gli altri per gli altri. Una filosofia che risorge prepotentemente proprio lì, dove invece, negli scorsi decenni, si era appannata, nella costruzione di una casa comune europea. Con il rischio di far saltare, in nome di una visione tutta particolaristica, anche quei progetti, come la Tav, finanziati dalla Ue per ammodernare le strutture dei singoli paesi.
Il guaio è che questa logica, che si impone nelle cose della politica, rischia di trovare una rispondenza e un’eco in tutto lo spazio pubblico, sempre più segmentato, polarizzato e perfino personalizzato grazie alla profilazione online delle nostre sempre più virtuali identità. Cos’altro sono infatti le echo chambers in rete, se non le nicchie in cui ciascuno trova il modo di convalidare solo il proprio punto di vista, di vedersi rimbalzata e rilanciata solo la propria opinione? È lì che ruggiscono i leoni da tastiera, ma è nei gazebo che questo paradigma si fa modo di legittimazione politica e di riproduzione sociale. A tutto svantaggio di ciò che una volta si diceva di voler, se non trovare, almeno ricercare: il bene comune.
Staremo a vedere. Nessun governo può essere giudicato ancor prima di nascere, benché il contratto, di sotto alla vaghezza di certe formulazioni, abbia un profilo ideologico chiaro, di cui difficilmente il premier, ciliegina sulla torta, potrà cambiare il sapore. Ma ormai siamo arrivati alla prova del budino, e tocca assaggiare.
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