Kim, il gigante che fa felice Spalletti

di Marco Ciriello
Giovedì 27 Ottobre 2022, 23:58 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 06:00
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Prima che il Caboto-Giuntoli lo scovasse, Kim Min-jae era un sereno bastimento in lento viaggio dalla Corea del Sud alla Turchia passando per la Cina. Scalava le classi della sua nazionale, generava febbriciattola negli osservatori del Tottenham, ma c’era sempre qualcuno che continuava a scuotere la testa, un evento a impedirgli il grande salto in uno dei principali campionati europei, un errore, una parola di troppo o una di meno. 

A contarle tutte le coincidenze che portano Kim Min-jae a Napoli c’è già il romanzo. Prima la burocrazia cinese, che genera una guerra sotterranea tra il calciatore e i dirigenti e l’allenatore del club dove giocava nel biennio 2019-2021 – Beijing Guoan – poi una sua intervista che era la controffensiva per farsi liberare da quella che viveva come una trappola cinese e che gli aveva negato il torneo olimpico.

Senza questi episodi avrebbe giocato con il Tottenham o con la Lazio o chissà dove altro ancora, invece finisce in Turchia, al Fenerbahce, dove Caboto-Giuntoli anticipa tutti replicando le caratteristiche di Kim, ma senza pallone: solo con carta e penna. Il resto è un vuoto che bisognava coprire: diventare il difensore che fa dimenticare Kalidou Koulibaly. Forse solo un asiatico poteva accettare la missione, in pochi mesi la foto di Koulibaly, sul muro dei ricordi della memoria napoletana, si è ingiallita, e quella di Kim sprizza colori e promette sogni, guadagnando nuove pareti. Il dibattito non esiste più. I dubbi nemmeno.

E la generazione cresciuta credendo nei tackle di KK ora si chiede come mai Kim abbia tatuato sulla schiena la copertina di un disco di musica metal o un affresco da chiesa cattolica in Asia che piacerebbe a Martin Scorsese? Vuole dirci qualcosa quel Cristo che porta la croce? Gustave Doré giocava a pallone? Kim Min-jae con Khvicha Kvaratskhelia rappresenta la nuova geografia del calcio e dello stupore, con la differenza che Kim doveva far dimenticare l’ultimo idolo del Napoli. L’altra sera, Luciano Spalletti, che chiede a tutti i difensori che l’intervistano che ne pensino di Kim aspettando l’attimo di condivisione per spartire la bellezza di vederlo agire, per definirlo ha usato una espressione contadina: è una bella bestia, come se Kim fosse un cavallo di razza.

E poi ha continuato parlando del ritmo nelle gambe. Non si offenda nessuno, gli animali sono gli unici padroni del mondo e l’uomo è un usurpatore, quindi il paragone ci sta. Poi va aggiunto al cavallo Kim, il fatto che al pari di un altro calciatore, sembra un alieno per come svetta e passa pulito tra gli avversari. L’altro, che ha solo tre centimetri in più, e che gioca nel ruolo opposto, è Erling Haaland, ed ha un milione di inglesi convinti che sia un cyborg. Kim, pur passando pulito e in anticipo, non sembra un cyborg, pur occupando lo stesso spazio del norvegese, perché ha un tratto selvaggio, che lo mette al sicuro: spedisce spesso il pallone in tribuna, un gesto antico, divenuto rozzo con il passare degli anni e delle partite.

Per il resto è un calciatore postmoderno, sa giocare in linea alta, sa cacciare in fuorigioco chiunque, e ogni suo gesto sembra essere la composizione di più sport – da ragazzo ha praticato taekwondo e judo –: quando anticipa gli attaccanti ha una pulizia di movimenti e una purezza di gesti che lo mettono in connessione naturale col pallone, poi per fortuna conserva ancora delle indecisioni negli scambi, anche se poi è capace di appoggiarla di tacco come l’altra sera contro gli scozzesi.

Quando esce pallone al piede si fa portatore di una gioia bambina e di una forza barbara che lo mette in salvo dalle petizioni inglesi. Però il rapporto a specchio con Haaland resta, perché entrambi hanno una sicurezza che porta il norvegese a segnare in ogni modo e il sudcoreano a lasciare agli attaccanti la prima mossa, entrambi controllano benissimo il corpo e la mente, e soprattutto il rapporto con gli altri, evitandoli nei contatti: interrompendo trame o finalizzandole. Kim Min-jae non è un marcatore killer, ma un marcatore samurai. La sua inquietudine è nel silenzio, la sua ossessività, l’ha raccontata Spalletti, è nel voler sempre giocare anche le partitelle dei non titolari.

È questa forza che diventa presenza e poi blocco, e poi chiodo, e poi certezza che gli ha permesso di cancellare l’ingombrante presenza di Koulibaly proprio come Karate Kid toglie e mette la cera, un gesto elementare ripetuto fino a diventare gesto d’appartenenza e d’evoluzione. Non conosce lo sbraco perché è educato al buon senso e all’essenza, e l’essenza passa anche per il pallone alto. Per la testa, che non è solo il colpo di testa che lo porterà a segnare più gol di qualunque difensore napoletano, ma la celebrazione del pensiero – ha una raffinata compressione del gioco pur non controllando la lingua –, l’estetica della riflessione, che accompagnano guizzi e lampi senza violenza. Kim sovrasta ma non devasta, è stupore aereo senza bisogno della gomitata bassa. Il suo corredo cromosomico lo porta fuori dallo stereotipo e lo consegna all’epica, in una diarchia che vede la cultura sudcoreana – che spopola nel cinema e delle serie tv – andare a braccetto con i suoi nuovi attori sportivi.

Kim Min-jae è uno dei testimonial del tempo nuovo, associa il misticismo conservatorista della sua schiena cattolica alla spregiudicatezza dei suoi gesti col pallone: era l’ignoto, o almeno doveva esserlo, era la paura del fallimento o almeno doveva esserlo, invece era solo il futuro che arrivava, la forza che trovava – in combutta con Rrahmani – una delle più belle coppie centrali di questi anni. Kim vede l’assedio da lontano ed è visto, e contrastandolo scrive il suo destino. 

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