Le tensioni sono invece aumentate nel tempo e, da un campo relativamente ristretto come l’acciaio e l’alluminio, si sono progressivamente estese, provocando naturalmente mosse e contromosse. Proprio in questi giorni il Presidente Trump ha imposto una tariffa del 10% su 200 miliardi di importazioni dalla Cina, minacciando di portarle al 25% se vi fosse una reazione da parte cinese che, ovviamente, non potrà mancare. Tutto questo ha già causato un raffreddamento nella crescita dell’economia mondiale, raffreddamento che, se la battaglia continuerà, non potrà che aumentare nei prossimi mesi. Proprio sull’evidenza di quest’effetto dannoso si basava la mia speranza che le controversie sollevate fossero soprattutto uno strumento per aprire nuove trattative.
Trattative necessarie perché i difetti e il non rispetto delle regole del commercio internazionale sono troppo evidenti per non esigere un profondo ripensamento. Ritenevo inoltre che gli interessi incrociati delle imprese multinazionali che investono, producono e vendono in tutte le parti del mondo, costituissero un freno al dilagare delle lotte commerciali che pesantemente ostacolano le loro strategie e i loro profitti. Le cose stanno invece diversamente: la guerra commerciale si intensifica e diventa parte determinante della sfida fra Stati Uniti e Cina per la futura supremazia mondiale. Una sfida che è diventata palese da quando la Cina ha lanciato il famoso programma “made in China 2025”, con il quale il paese asiatico si propone di assumere la leadership mondiale nei settori ad altissima tecnologia come l’automazione industriale, l’intelligenza artificiale e i prodotti di punta dei principali settori innovativi nei quali, fino ad ora, il primato americano ed europeo era indiscusso.
In parole più semplici: la lotta commerciale si sta trasformando in una guerra per la primazia futura, una guerra che Trump vuole vincere prima che sia troppo tardi. Il Presidente americano è certamente ostacolato in questo suo disegno dai rappresentanti delle stesse imprese americane che hanno interessi globali e da coloro che importano dalla Cina prodotti a basso prezzo (e che ritengono quindi che le tariffe doganali siano un’imposta sulle famiglie), ma è confortato da un diffuso sostegno popolare, che vede nella Cina la più grande minaccia all’occupazione e ai livelli salariali americani.
Sperando che si arrivi al momento della moderazione e del dialogo restano due interrogativi. Il primo riguarda il ruolo marginale dell’Europa in questa sfida mondiale mentre, essendo ancora la più grande potenza industriale e il più grande esportatore mondiale, dovremmo e potremmo svolgere quantomeno un ruolo di mediazione, convocando almeno una conferenza riguardo alla necessità di aggiornare alla nuova realtà le regole del Commercio internazionale nell’ambito del Wto. Anche perché noi europei saremo direttamente danneggiati dalla maggiore concorrenza cinese dovuta alla chiusura del mercato americano. In secondo luogo mi chiedo come mai il Presidente americano abbia interesse ad entrare in conflitto, in questa così importante materia, non solo con la Cina ma anche con il Canada, il Messico e, soprattutto, con i tradizionali alleati europei. I problemi creati dalla globalizzazione non possono infatti essere affrontati, e tantomeno risolti, da un paese che agisce in solitario.