Napoli, dagli Orefici al Duomo le altre Port’Alba da rilanciare

di ​Piero Sorrentino
Mercoledì 27 Dicembre 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:42
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Sarebbe l’ennesima occasione sprecata della città trascurare tutto quello che sta accadendo – anche grazie al racconto e alla denuncia drenati da mesi lungo le pagine di questo giornale – intorno alla zona di Port’Alba. Le proteste dei comitati spontanei, l’attivismo di cittadini e commercianti, la partecipazione entusiasta delle persone alle attività delle librerie della storica via. A quest’azione orgogliosa si sono associati in tanti, facendo ognuno la propria parte, ognuno portando come ha potuto un contributo alla discussione. 

Si può, a questo punto, ragionevolmente sperare che non ci si accontenti solo di questo, e che il lavoro collettivo fatto su Port’Alba possa diventare una specie di modello da ripetere, allargare e diffondere alle molte realtà cittadine tanto identitarie quanto quella. Dalla zona di piazza Mercato con il suo commercio di giocattoli a quella di via Duomo con la sua offerta museale, la città conserva la sua anima storica e culturale diffondendola in pezzi, lungo zone, linee di confine e aree che la comunità riconosce e protegge. Nulla si conserva mai, in nessun modo e per nessun motivo, se resta immobile e stagnante. La tradizione stessa è figlia di un continuo rinnovarsi, e proprio l’esempio di Port’Alba – con le sue complicate acrobazie per conservare un’identità legata alla parola scritta senza soccombere ai numeri critici che caratterizzano l’editoria e il commercio librario – ne è prova scintillante. Ma rinnovarsi non vuol dire autodistruggersi, e l’anima stessa delle città è in questo continuo equilibrio tra mutazione e cambiamento. 
Da questo punto di vista, è più che condivisibile l’appello lanciato qualche giorno dal presidente del consorzio Borgo Orefici Roberto De Laurentiis.

De Laurentiis ha espresso l’auspicio che anche il gomitolo di strade alle spalle del corso Umberto possa diventare meta dei flussi turistici che invadono la città sta precisamente al centro di quella delicata dialettica tra tradizione e innovazione di cui si diceva qualche riga sopra. Perché è obiettivamente abbastanza incredibile che un pezzo di città tanto riconoscibile, con una tradizione e una storia così forti alle spalle, venga accuratamente circumnavigato dalle pattuglie di visitatori che arrivano a Napoli. Come fosse cancellato, messo tra parentesi, dimenticato o ignorato. Eppure l’artigianato orafo è tanto riconoscibile nei suoi tratti culturali e simbolici tanto quanto la gastronomia che, viceversa, calamita così tanto le attenzioni dei turisti.

Forse che pizzaioli e pasticcieri siano più capaci dei gioiellieri nel far conoscere il proprio prodotto e offrirlo alle centinaia di migliaia di viaggiatori che ogni anno sbarcano in città? A meno che non si voglia assegnare una maggiore incisività dell’una sull’altra categoria, la risposta forse va cercata altrove.

Ed è una risposta molto più complessa, composta di mille elementi. Alcuni dei quali capaci di ripresentarsi sempre al tavolo degli immobilismi di Napoli, a cominciare dalla solita, rozza e inutile contrapposizione tra conservatori e innovatori, i due diapason che risuonano frequentissimi nel discorso pubblico cittadino.

Da un lato, i paladini dell’innovazione. Dall’altro, i talebani della tutela. Nel primo caso, coloro che spingono affinché tutto debba mutare, compresi quegli elementi di grande riconoscibilità storica e culturale che hanno caratterizzato per interi lustri l’identità della città. Nel secondo, coloro che sono contrari al benché minimo cambiamento, immaginatori di un impossibile mondo urbani messo sotto ghiaccio e condannato a un eterno sonno. Ma, come spesso accade, la verità sta nel mezzo, e consiste in una terza via che rispetti il codice genetico della città favorendone allo stesso tempo una crescita armonica e al passo coi tempi. Che sia capace di innestarvi nuove architetture culturali senza violarne l’anima originaria, tutelando quello che esisteva sforzandosi di portarselo dietro nel suo nuovo, e diverso, presente. 

Se non si fa così, la città si impegna ancora una volta nel triste gioco di separare i figli dai figliastri, posando la sua mano protettiva sul capo dell’artigianato presepiale e della gastronomia e prendendo un po’ irritata a calci le altre forme di produzione manifatturiera che pure ha contribuito a disegnarne il volto, rendendolo riconoscibile in tutto il mondo. Sarebbe invece un bell’esercizio di maturità culturale e politica quello di provare ad allargare il raggio di azione e attenzione anche alle altre Port’Alba, quei pezzi che ormai sembrano dimenticati – a parte i residenti e pochi altri – anche agli stessi napoletani, che le considerano zone ormai consegnate a una memoria del passato, a un archivio un po’ impolverato dove si accumulano i faldoni dimenticati dei fasti che furono e non sono più. Ma a valorizzare trasversalmente e, per così dire, democraticamente la vocazione turistica della città ci si deve mettere, come al solito e prima di tutti, la politica. Più attenzione, una segnaletica più chiara, maggior tutela della sicurezza, la garanzia di servizi di pulizia delle strade eccetera. Certo non basta quello, perché a quel punto, a cascata, sono necessari gli sforzi degli operatori turistici, dei commercianti, dei comitati di tutela di zona, e così via. A conferma che, come in ogni città ma forse più che in altre città, è inutile, qui a Napoli, soffiare in una sola tromba o corno, se l’orchestra non ti sta dietro per produrre, con te, una musica viva. 

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