Gli occhi chiusi sulla morte ​della Galleria Umberto

di Vittorio Del Tufo
Mercoledì 10 Febbraio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Hanno il sapore di lacrime già versate le puntualissime geremiadi sul rovinoso abbandono della Galleria Umberto, simbolo della protervia delle babygang ma anche di una città ingovernata e svilita, e di un’amministrazione che sembra aver perso completamente di vista quello che doveva essere - e non è stato - il suo principale dovere: garantire a Napoli, e ai suoi monumenti, un briciolo di decoro. Tutto ci scivola addosso, lasciandoci solo un vago senso di nausea: hanno il sapore del deja vu anche gli sfoghi dei gestori dei locali affacciati sulla terra di nessuno, come il responsabile del bar «Ke Kafè» costretto ad abbassare le saracinesche in anticipo non per la pandemia ma per l’ostinata arroganza dei ragazzini ai quali viene consentito di utilizzare il salotto della città come un campo di calcio, o, peggio, il cesso di casa loro.

Dietro il gesto - un’abile mossa da karateca - che ha mandato in frantumi l’ennesima vetrina della Galleria, non c’è soltanto la ritualità intollerabile di certi piccoli comportamenti criminali ai quali siamo assuefatti. C’è il fallimento di un intero sistema di regole su cui dovrebbe fondarsi la vita di una comunità: sicurezza, controlli, sanzioni, prevenzione, rigore amministrativo, pene severe nei confronti di chi distrugge, o semplicemente imbratta, i beni comuni. Di tutto questo abbiamo parlato tanto volte ma è opportuno parlarne ancora, almeno fino a quando la manutenzione della città, a cominciare dai suoi luoghi-simbolo, non tornerà in cima alle preoccupazioni della giunta. Quella attualmente in carica (vana speranza) e quella che verrà dopo il voto per le amministrative.

La Galleria Umberto è il simbolo di una resa, di un disarmo più ampio. Un non luogo dove impera da anni la legge del non governo in ossequio allo scellerato paradigma dell’autoregolamentazione urbana: la città è di chi se la prende; e chi urla più forte, facendo del disprezzo delle regola la propria condotta di vita, se la prende di più. Le babygang occupano il vuoto dei luoghi lasciati marcire, degli spazi urbani non coltivati. 

I turisti, che fino al 10 marzo erano il motore dell’indotto, sono scomparsi. E il tempo del lockdown, che poteva essere utilizzato per gli interventi di manutenzione e di restauro, è invece trascorso invano. «Dove c’è un proprietario unico, come la Banca d’Italia, le operazioni di ripristino avvengono. Dove invece si devono mettere d’accordo più parti in causa - ha denunciato il responsabile del «Ke Kafè» al nostro cronista - le cose restano immutate per anni». 

Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che il decoro alla lunga paga, diventa ricchezza, fattore di sviluppo.

Nella Galleria i rappezzi sono eterni, quando piove bisogna camminare con gli ombrelli aperti a causa delle infiltrazioni dovute ai mancati interventi sui vetri superiori della cupola. In passato, anche dopo la morte del quattordicenne Salvatore Giordano, travolto da un fregio staccatosi da una facciata del monumento, i lavori di messa in sicurezza si sono arenati tra liti e ricorsi, in un’eterna querelle tra Comune e soggetti privati, mentre lo stesso processo avanza lentamente in attesa della sentenza di primo grado (la prossima udienza è prevista per il 15 febbraio). All’ingresso della Galleria su via Toledo l’impalcatura risale al 2014 e cade letteralmente a pezzi. Data di fine lavori: non pervenuta. Maledizione di un luogo che appartiene a tutti e nessuno. Sotto la volta della Galleria - realizzata tra il 1887 e il 1890 nell’ambito dei lavori per il Risanamento della città dopo l’epidemia di colera del 1884 - ogni zona è grigia, ogni materia è schiumosa, ogni competenza è confusa, ogni verità è relativa, ogni responsabilità è limitata.

Nelle altre città, a cominciare da Milano, le grandi griffe non esitano a spendere cifre da capogiro per aggiudicarsi un affaccio sulle gallerie commerciali. Prestigiose e ambite finestre sulla città, luoghi nei quali il passato si incontra con il futuro, dunque non solo «salotti» ma anche volàno di crescita e di sviluppo economico. A Milano la Galleria Vittorio Emanuele II è una gallina dalle uova d’oro: gli amministratori lo hanno capito e per questo puntano sul decoro e sulla manutenzione dell’Ottagono affacciato su piazza del Duomo e piazza della Scala.

Così, mentre altrove si parla di aste record per aggiudicarsi questo o quell’altro esercizio commerciale, e di quattrini che entrano con la pala nelle casse degli enti pubblici, a Napoli siamo ridotti ad abbassare la testa per la vergogna e riavvolgere, ogni volta, la trama di un film che proietta sempre le stesse immagini: le transenne intorno ai vetri e ai marmi spaccati, le infiltrazioni dal tetto, il degrado e gli atti vandalici, le partite delle guagliunere che possono contare sulla certezza dell’impunità e, poiché non ci facciamo mancare niente, il triste destino dell’albero Rubacchio, depredato e scorticato dai vandali ogni Natale che Dio manda in terra.
Temiamo che la città, travolta da troppe emergenze, abbia rimosso il grande scandalo della Galleria Umberto, che anni di strafottenza istituzionale hanno trasformato in un luogo avvilente, per non dire indecente. Simbolo di una città che gonfia il petto per i suoi tesori, per i suoi luoghi della memoria, ma non riesce a salvarli da un destino di rovina.

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