Più avamposti culturali per fermare la violenza

di Fabrizio Coscia
Mercoledì 26 Gennaio 2022, 00:00
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L’annuncio del ministro Cartabia sull’apertura della scuola di magistratura a Castel Capuano, in una zona finora abbandonata al degrado più totale, arriva in tempo a compensare in parte, per così dire, le notizie sulla movida selvaggia a Napoli che provocano sempre un certo sgomento.

Nell’ultimo weekend di paura, infatti - tutt’altro che tranquillo - ci sono stati, quasi in contemporanea, due episodi di (stra)ordinaria follia: un sedicenne che tenta di rapinare uno scooter a piazza Vittoria con un complice armato e due giovani feriti da colpi di pistola agli chalet di Mergellina, dove sarebbe scoppiata una rissa per futili motivi. Episodi che ci dicono di una violenza che non conosce confini di quartiere.

Protagonisti della violenza soprattutto i giovani. Ma che cosa spinge i ragazzi a considerare «divertimento» questo sfogo degli istinti più primordiali, territoriali, o - nella peggiore delle ipotesi - criminali? In questi casi l’etimologia torna sempre utile. La parola «divertire» deriva dal latino «divertere», che vuol dire «volgere altrove», «in direzione opposta». Ma volgersi altrove rispetto a cosa? E in quale direzione? Pasolini una volta, affrontando la questione della diffusione della droga tra i giovani, scrisse che la droga «viene a riempire un vuoto causato dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura», poiché «per amare la cultura occorre una forte vitalità».

Forse c’è qualcosa di semplicistico in questa affermazione, ma mi pare che si possa adattare anche al concetto di movida violenta. Il «divertimento» così inteso sarebbe allora un modo per «volgersi altrove», «in direzione opposta» a quel vuoto di cultura. Solo che in questo caso la direzione opposta non è il gesto autodistruttivo (il «desiderio di morte»), ma l’aggressività verso l’altro. Poiché a quel vuoto non è più associato un senso di svilimento e di depressione, ma un’esaltazione rancorosa e competitiva, un delirio di onnipotenza che affonda le sue radici in un nichilismo generazionale, indotto e prodotto da una mercificazione totalitaria che ha trasformato questi ragazzi in cavie inconsapevoli per algoritmi social.

Addestrati a una virtualità che ha come unico scopo quello di monetizzare la loro facile attenzione verso il nulla dei loro schermi da smartphone (uno specchio narcisistico a perenne portata di selfie e tiktok), questi ragazzi si trovano a vivere poi nella realtà - che, come sappiamo, è tutt’altro che una macchina di like e follower - un disagio, una frustrazione, una rabbia che finiscono con lo sfogare con la violenza.

La Napoli di questi ragazzi è profondamente mutata rispetto alla Napoli dei miei vent’anni (come sono profondamente mutate Roma, Milano, Firenze).

Mi è capitato di recente di tornare a sfogliare le pagine che Pier Vittorio Tondelli dedicò alla Napoli di quegli anni (la metà degli Ottanta) in «Un weekend postmoderno»: pagine bellissime, perché documentano la straordinaria fauna d’arte che animava la città, con l’esplosione di Falso Movimento, la compagnia teatrale fondata da Mario Martone, e del gruppo Ida Duarte, con i locali underground del centro storico come il Diamond Dogs. Una «Napoli-garage», scriveva Tondelli, i cui giovani cittadini «diventano immediatamente simili ai loro coetanei di ogni altra città dell’Internazionale Occidentale, mandando a rotoli l’immagine agiografica e folkloristica di una napoletanità che nei suoi rampolli invece svanisce».

Certo, anche allora si pativa una mancanza di progettualità e una precarietà che rendeva difficile la sopravvivenza di quella fioritura artistica, ma c’era appunto quella «forte vitalità» necessaria ad «amare la cultura», che oggi vediamo invece tragicamente perduta, così che quel centro storico si è trasformato nel giro di una ventina d’anni in un enorme fast-food a cielo aperto, con friggitorie, gelaterie, patatinerie, paninerie, che hanno sostituito librerie e case editrici, centri culturali e gallerie d’arte.

Bisognerebbe, allora, ripartire da qui, da un’idea istituzionale che dichiari lo stato d’emergenza per un investimento culturale che dia di nuovo la possibilità ai giovani di aggregarsi creativamente in spazi urbani capaci di offrire alternative alla movida degli spritz e delle patatine fritte; da una scuola che combatta la dispersione con più risorse e punti più alla formazione umanistica e culturale che a quella delle competenze; da un sforzo d’immaginazione per reinventare l’uso e la funzionalità delle biblioteche di quartiere; da un sostegno economico alle associazioni e alle librerie indipendenti; da una sinergia tra pubblico e privato per moltiplicare le iniziative artistiche.

Ecco, allora, che la notizia dell’imminente riapertura di Castel Capuano con la scuola superiore di magistratura, che sarà la seconda in Italia, dopo quella di Scandicci in Toscana, può essere un primo segnale incoraggiante di riqualificazione urbana in questo senso. 
 

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