Scampia e il brand ​dei luoghi comuni

di Piero Sorrentino
Lunedì 29 Giugno 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Scampia marchio registrato. Come la Nike o la Coca-Cola, come i prodotti commerciali delle multinazionali che con le loro merci invadono gli scaffali dei supermercati e accompagnano le vite di pressoché tutti gli esseri umani dalla colazione alla buonanotte. Il brand Scampia è diventato da tempo un bollino di qualità da staccare e incollare a piacimento su interviste, discorsi, interventi, iniziative della politica per garantire a quelle parole il giusto grado di efficacia, profondità, consapevolezza agli orecchi di chi ascolta. Nelle intenzioni di quelli che lo usano, dicono “Scampia” e subito le loro parole acquistano rotondità, diventano sode e lucide come pesce freschissimo da servire al mercato, guadagnano vigore e pulizia. Dicono “Scampia” e credono di acquistare in giustizia, probità, rigore, rettitudine.

Accade da tempo, è accaduto di nuovo l’altro giorno, durante la conferenza stampa del presidente del Consiglio Conte e della ministra Lucia Azzolina. Sei volte il logo è stato esibito, sei volte il contrassegno è stato applicato. “A Scampia una scuola come si deve” scandisce a un certo punto Giuseppe Conte, prima di voltarsi a guardare la ministra al suo fianco. “Dobbiamo riuscirci!” lo segue lei a ruota, ridacchiando imbarazzata. “Non era organizzato nulla!” rilancia il capo del governo. Ma sulla spontaneità del dialogo, se non sulla sua totale improvvisazione e superficialità, non c’era proprio alcun dubbio, tanto che poi – come si è scoperto qualche ora dopo, quando lo stesso Miur è corso a correggere le parole della ministra – è venuto fuori che, ancora una volta, i riferimenti alla realtà concreta del quartiere napoletano erano completamente sballati.

Che la scuola in appartamento di cui parlava la titolare del ministero “era riferita a situazioni esistenti, ma in altri territori della stessa provincia, ad alta densità abitativa, e in altre aree del Paese”. Un po’ come nella bellissima didascalia che apre “Le mani sulla città” di Francesco Rosi: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Insomma, se a Scampia c’è del disagio sociale – sembrerebbe essere stato il ragionamento – facciamo che può esistere anche una scuola in un appartamento; e se poi non c’è, pazienza: tanto sono socialmente svantaggiati, ci sta bene uguale. Abbiamo applicato la griffe Scampia, sarà lei a proteggerci.

Ma un film è un film, usa gli strumenti della finzione per raccontare la realtà. La politica è politica, deve affondare le mani nella materia concreta del presente, di quello che è e che esiste, per ridargli lo scintillio e la vivacità di quello che potrebbe essere. L’invenzione narrativa di un film è a suo agio nei chiaroscuri, nel provvisorio e nell’indefinibile. La sua bellezza sta in questo. Ma la politica deve farsi strumento agile di azione concreta su fatti, dati, documenti. Per fare questo non basta apporre un marchio di garanzia per poi passare serenamente ad altro. E non è sufficiente trattare tutte le periferie allo stesso identico modo, spostando qui e là infiniti personaggi immaginari di un romanzo scritto male, abbozzare i volti di un mondo ridotto a spettacolo di pietà sul quale, ogni tanto, far cadere un po’ di soldi, la benevolenza di qualche inaugurazione con assessori e notabili locali, un convegno, una kermesse, qualche rassegna, due o tre scatti a favore dei social e arrivederci a tutti.

Ogni periferia è un assoluto reale che si colloca al centro solo di sé stesso e di nient’altro. E questo assoluto è descrivibile solo dall’interno. Solo chi vi è calato dentro può parlarne, raccontarlo, avanzare proposte e soluzioni. Dall’esterno giungono i supporti, avanzano le reti di protezione. Ma sono le voci da dentro che le guidano nel loro percorso. E un quartiere come Scampia trabocca letteralmente di voci preziose che, col loro canto, possono sbrindellare quel marchio registrato, possono ripulirlo dagli psicologismi d’accatto, liberarlo dal costume di scena che a qualcuno fa comodo ogni tanto indossare. Quelle voci sono le voci degli insegnanti, degli studenti, dei presidi, delle famiglie. Sono le voci delle decine di operatori e associazioni che lavorano pancia a terra nel quartiere da anni: il Gridas fondato da Felice Pignataro, il centro territoriale Mammut, “Chi rom…e chi no”, il centro Hurtado di padre Fabrizio Valletti, Arci Scampia e tantissimi altri. Ben venga, allora, la visita della ministra che ha accettato l’invito a visitare le scuole del quartiere. A patto che, successivamente, il Ministero ricambi l’invito e accolga a Roma tutte quelle persone per lasciare loro la parola. Dopo gli Stati generali dell’economia, in fondo, perché non pensare a qualcosa come gli Stati particolari delle periferie? Magari saranno meno fashion di villa Pamphili, ma i benefici che potrebbe trarne tutto il Paese sarebbero inimmaginabili.

 
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