Ora la politica recuperi il senso dello Stato

di Alessandro Campi
Domenica 19 Agosto 2018, 22:56
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Si è sentito e visto davvero di tutto nelle convulse giornate dopo la tragedia di Genova. L’ansia di giustizia dei cittadini trasformata in spirito di vendetta popolare, con la ricerca di facili capri espiatori più che di colpevoli effettivi. La celebrazione religiosa delle vittime, che avrebbe richiesto un doloroso silenzio, ridotta ad un’occasione di strumentale polemica tra partiti. La certezza del diritto sacrificata sull’altare della propaganda populista per bocca dello stesso Presidente del Consiglio (peraltro un giurista!).

Accuse incrociate e insensate tra le diverse forze politiche sulle responsabilità del crollo.
E poi le legioni di maniaci della tastiera trasformatisi in esperti di scienze delle costruzioni e di diritto amministrativo, capaci di discettare di cedimenti strutturali e revoche di concessioni con la stessa facilità con cui, appena una settimana fa, pontificavano sui pericoli e i vantaggi delle vaccinazioni. Per non dire del ritorno di fiamma statalista e nazionalizzatrice in un Paese dove sino all’altro ieri lo Stato veniva accusato d’essere corrotto, sprecone e inefficiente dagli stessi che oggi vorrebbero riaffidargli la proprietà e la gestione della rete autostradale. Mettiamoci infine la conduzione dilettantesca della crisi da parte dei protagonisti: atteggiamenti che hanno contributo ad accrescere il malumore dei cittadini e a diffondere il sospetto, del quale il populismo si nutre, che questi ultimi siano vittime innocenti di un sistema di potere gestito da oligarchie avide di potere e soldi. 
Il risultato è il contraddittorio caos politico nel quale ci troviamo. Con il Presidente della Camera Roberto Fico che chiede scusa a nome dello Stato, con Salvini che sostiene perentorio che lo Stato non accetterà elemosine da privati, laddove sono in molti a sostenere che in Italia semplicemente uno Stato non esiste più. Ma se così è che farsene del cordoglio o dell’orgoglio di un’istituzione il cui ultimo presidio credibile, nello sfascio generale, sembrano essere rimasti i Vigili del Fuoco che per definizione intervengono a catastrofe avvenuta?
Ma dal momento che la speranza è proverbialmente sempre l’ultima a morire, chissà che questa tragica contingenza non serva, appena si sarà placata l’onda della retorica partigiana e del sentimentalismo travestiti da intransigenza morale, a produrre se non un salto di qualità nel modo di pensare e operare dell’attuale classe politica (di governo ma senza trascurare l’opposizione) almeno un minimo cambio di marcia da parte di quest’ultima. 
Intervistato lo scorso sabato, Massimo Cacciari ha ricordato che lo Stato – in questi giorni maledetto da alcuni per la sua strutturale inefficienza e invocato da altri come l’unico protettore dei cittadini inermi (ma bisogna decidersi: o l’una o l’altra cosa) – è innanzitutto una macchina tecnico-burocratica, politicamente neutrale, che nel caso dell’Italia si è inceppata (non da oggi) e deve perciò essere rimessa in funzione nelle sue diverse articolazioni istituzionali e territoriali. Cosa che semmai dovesse avvenire renderebbe persino inutili le attuali discussioni sulle imprese e i servizi da riportare sotto proprietà pubblica: uno Stato serio ed efficiente può infatti limitarsi a controllare nell’interesse collettivo, ponendo regole e condizioni economiche stringenti, ciò che i privati gestiscono in una logica di legittimo profitto. 
Ma rimettere il funzione un’anchilosata struttura statale, dove spesso operano funzionari demotivati e privi d’un chiaro indirizzo politico, richiede capacità tecniche e uno spirito pragmatico che nella scena politica italiana, dominata dalla litigiosità e dalla ricerca di un facile consenso basato sulla bulimia da comunicazione, sembrano latitare. Ieri il sotto-segretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, nel colloquio ospitato su queste colonne, ha dato prova di concretezza dicendo che dalla tragedia di Genova si deve partire per mettere mano a un vasto programma di messa in sicurezza infrastrutturale del Paese: dalle strade alla scuole. Il tutto preludio di una politica di sviluppo e modernizzazione senza la quale l’Italia, con la sua rete di strutture sempre più obsolete sul lato tecnologico, rischia di diventare il fanalino di coda del mondo industrializzato.
Un obiettivo certamente lodevole e lungimirante che se da un lato pone il problema delle risorse finanziarie necessarie a realizzarlo (davvero si convincerà l’Europa a concederci maggiore flessibilità di bilancio?) dall’altro chiama in causa il modo di porsi sulla scena pubblica dei due vice-premier del governo di cui Giorgetti fa parte. Di Maio e Salvini, in tandem perfetto al di là della diversità di vedute su molti temi, hanno sinora preferito aizzare l’animosità degli italiani contro il vecchio ceto politico, imputandogli ogni nefandezza. Lo hanno fatto ricorrendo ad una strategia mediatica, un misto di promesse a buon mercato e di denunce mosse da un’indignazione spesso legittima (come appunto nel caso della vicenda genovese), che li ha resi certamente «vicini al popolo» ma che ha anche comportato un aumento esponenziale delle attese e, aspetto da non trascurare, una crescente delegittimazione dello Stato di cui pure essi sono tra i massimi rappresentanti istituzionali. In termini di consensi (potenziali e immediati) ciò sta pagando, ma quanto può durare una simile strategia senza che si risolva in un boomerang quando dalle promesse bisognerà pur passare alle realizzazioni concrete e senza che questo stillicidio quotidiano di annunci, proclami e accuse contro gli avversari (reali e concreti ma spesso immaginari e di comodo) produca il crollo definitivo di un sistema istituzionale fragile come è ormai da anni quello italiano?
 
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