Totò, lo scheletro e il chierichetto

di Vittorio Del Tufo
Martedì 23 Aprile 2024, 23:49 - Ultimo agg. 24 Aprile, 06:00
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«Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie...appartenimmo à morte!». Aveva appena dieci anni, il chierichetto Antonio - o Totò, come lo chiamava la madre - quando s’imbatté per la prima voltanegli scheletri raffigurati sulle pareti delle catacombe di San Gaudioso.C’era (e c’è tuttora) un affresco, in particolare, dal quale il giovane chierichetto non riusciva a distogliere lo sguardo.

Era del pittore Giovanni Balducci, vissuto a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, e raffigurava lo scheletro di un uomo ai cui piedi campeggiavano alcuni oggetti che evidentemente, per l’uomo ridotto a scheletro, avevano smesso di risultare importanti. Un libro, una corona, uno scettro, una clessidra semivuota. Quando sei morto non sai più cosa fartene dello scettro e dalla corona, e la clessidra smette di riversare la sabbia, perché il tempo non scivola più. Fu ripensando a quell’immagine che parecchi anni più tardi - nel 1964 - l’ex chierichetto del rione Sanità compose un testo strepitoso, che sotto forma di dialogo tra lo spirito di un marchese e quello di unnetturbino indaga sullanatura effimera degli orpelli sociali -le pagliacciate delmondo dei vivi - e sulla morte che tutto appiana. E, come una livella, fa piazza pulita delle distinzioni di classe e della tronfia arroganza delle élite nobiliari. È di ieri la notizia che i legali della famiglia De Curtis hanno chiesto la rimozione dalle attività commerciali di tutta Italia delle insegne e delle immagini riferite al Principe della Risata.

«È una questione di rispetto per mio nonno - dice la nipote Elena De Curtis - Ci imbattiamo ovunque, nei posti più impensati, nel suo nome e nelle sue foto utilizzati senza il minimo rispetto del diritto all’immagine». Il tema dell’utilizzo dell’immagine non riguarda, ovviamente, solo l’autore della Livella.

Stesso problema, a questo punto, può porsi per i mille locali (bar, ristoranti, pizzerie, ludoteche) che citano nelle loro insegne il nome di famose canzoni di Pino Daniele o di altri artisti. Insomma la disputa attorno al nome del Principe della Risata - e alla possibilità di ricavare, dall’utilizzo di quel nome, vantaggi e convenienze di tipo economico - pone un problema molto più ampio e complesso, che attiene al diritto d'autore e alla possibilità di rendere omaggio, senza il permesso da parte degli artisti e dei loro eredi, a cantanti, artisti, scrittori o registi. Vivi o morti. Tornando alla poesia-capolavoro all’origine della suddetta disputa, pare che il grande Totò, nel comporla, si sia ispirato al Dialogo sopra la libertà scritto nel 1747 dal poeta e abate Giuseppe Parini: un breve dialogo immaginario con due protagonisti, un Poeta e un Nobile, che per una circostanza fortuita si ritrovano a condividere la stessa tomba. La splendida battuta finale del povero netturbino, nuje simmo serie… appartenimmo ‘a morte, consegna il marchese e la sua boria a un destino di irrilevanza. ‘A morte ‘o ssaje ched’’e? ...è una livella. ‘Nu rre, ’nu maggistrato,’nu grand’ommo, trasenno stu canciello ha fatt’o punto c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme: tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto? Antonio De Curtis, il grande Totò, questo conto se lo fece. Nessuno mi ricorderà, affermò in un’intervista pochi giorni prima di morire. Mai profezia si rivelò più sbagliata. «Tu, maestro del buonumore, questa volta ci stai facendo piangere tutti», disse NinoTaranto ai suoifunerali, con la voce rotta dall’emozione. Era il 17 aprile 1967, e le lacrime del vecchio amico erano le lacrime di un’intera città. 

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