Trani, se sono i magistrati a violare i diritti

di ​Giuseppe Di Federico
Giovedì 17 Maggio 2018, 22:57
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Su La Repubblica di ieri è stata data la notizia che due pubblici ministeri della Procura di Trani avrebbero in vario modo minacciato e ricattato tre testimoni per ottenere da loro dichiarazioni corrispondenti alle loro tesi accusatorie dicendo, tra l’altro «…se quello che ci dite non converge con quello che sappiamo già ve ne andate tutti in galera». Non si tratta certo di una fenomeno nuovo, che anzi fa parte di prassi che sono abbastanza diffuse nei nostri uffici di Procura. Sull’argomento abbiamo intervistato 4.267 avvocati tra il 1992 ed il 2012. Circa il 90% di loro afferma che in varie forme il fenomeno esiste e circa il 50% di loro dice che si verifica “di frequente”. Quindi ciò che è avvenuto a Trani non è certamente una novità, ma è solo una delle gravi, ricorrenti violazioni dei diritti dei cittadini che caratterizza da anni il nostro processo penale. Stando a quanto riferito da La Repubblica il caso tuttavia presenta una novità di non poco conto e cioè che in questo caso il Csm avrebbe intenzione di sollecitare un’iniziativa disciplinare nei confronti degli autori di quell’episodio. Che si tratti di una novità emerge dal raffronto con i comportamenti del Csm in un caso del tutto simile che suscitò scalpore anni addietro, nel giugno 1997, nella Procura di Roma. Un caso che, per una svista del pm, venne videoregistrato e successivamente anche descritto in un libro. La videoregistrazione mostra una testimone che piange disperatamente dicendo al pm di non saper niente di quanto le viene richiesto ed il pm che a sua volta la minaccia dicendo che finirà in prigione se non confessa quanto da lui voluto (confessione che poi avvenne). Il video di quell’interrogatorio venne trasmesso dalla nostra televisione pubblica e fu acquisito anche dal Csm. Nonostante la piena e inconfutabile evidenza di quanto avvenuto, in quel caso il Csm non solo non sollecitò l’azione disciplinare, ma successivamente promosse quel pm con una motivazione altamente laudativa della sua professionalità. In tal modo il Csm implicitamente decise che i comportamenti di quel tipo da parte dei pm sono legittimi e professionalmente corretti. Ed alla luce di questa decisione del Csm, non possono sorprendere più di tanto le risposte degli avvocati sulla diffusione del fenomeno, 
Se nel caso del pm di Trani il Csm agirà con rigore sarà certamente cosa positiva. Non sarà però sufficiente ad evitare che il fenomeno segnalato dagli avvocati, e da me riscontrato anche con altri strumenti di ricerca, continui a verificarsi in varie forme ed in maniera diffusa. Non è, infatti, facile individuare le varie forme in cui il fenomeno si verifica e tantomeno documentarlo a fini disciplinare o processuali. Un tentativo di rendere sistematica la documentazione degli interrogatori degli indagati e dei testimoni fu fatto negli anni 1991-92 allorquando condussi, con vari collaboratori, per conto del ministero della giustizia, con il pieno appoggio di Giovanni Falcone e del ministro Martelli, la sperimentazione in 6 sedi giudiziarie della videoregistrazione del processo penale avendo come modello le applicazione che si stavano allora effettuando negli Usa. Con particolare riferimento alla fase delle indagini organizzai anche una visita di ricerca in Inghilterra, visita cui partecipò non solo Falcone ma anche De Gennaro della polizia di Stato e, se ben ricordo anche il colonnello dei carabinieri Mori. Visitammo, tra l’altro la stazione di polizia londinese di Edmonton ove tutti gli interrogatori (in Inghilterra non li fanno i pm ma la polizia) venivano già audio registrati (e non videoregistrati, come negli Usa). Tra i molteplici obiettivi che allora ci si proponeva con l’adozione della videoregistrazione vi era anche quello di documentare la correttezza dei comportamenti dei pm nella fase delle indagini per il rilievo che essi possono assumere nel processo, una documentazione che se acquisita può servire anche a fini disciplinari. A seguito della morte di Falcone quegli esperimenti e quelle ricerche non ebbero uno sbocco applicativo.
Debbo aggiungere che le violazioni del etica giudiziaria dannose per il cittadino e per l’immagine della giustizia, come è certamente quella qui considerata, non possono efficacemente essere evitate solo con la repressione. In una ricerca da me condotta, con finanziamento dell’Osce, sulla evoluzione dei sistemi di disciplina giudiziaria nei paesi democratici si mostra come l’adozione di una serie di iniziative proattive che prevengano il fenomeno sia più efficace della repressione. Ciò non è avvenuto in Italia. Tra quegli strumenti vi è anche quello dell’attività di formazione dei magistrati, cioè un settore in cui forte è l’impegno della nostra Scuola superiore della magistratura. Un impegno che però non riguarda l’etica giudiziaria. Se ho letto bene i 248 programmi di formazione continua offerti ai magistrati nel 2017 e 2018, solo uno è dedicato specificamente al tema dell’etica giudiziaria. A differenza di altri Paesi, da noi l’argomento non viene considerato importante per la formazione del magistrato.
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