Sergio Mattarella manda spesso messaggi apparentemente semplici nella loro tessitura, in realtà ricchi per i diversi livelli di lettura a cui si prestano. Il discorso di ieri a Genova va esaminato con questa consapevolezza, cogliendo tanto il ragionamento limpido che rivolge alla audience che lo segue sia in teatro sia soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, quanto il messaggio che sobriamente indirizza in sottofondo al mondo politico. Fa parte del primo livello la appassionata ricostruzione della vicenda resistenziale ligure, che viene ricordata non con un rinvio, magari anche vibrante, alla sua monumentalizzazione, ma con la riproposizione della “concretezza” di quelle esperienze: il coinvolgimento di tutto un popolo, il costo delle stragi (quasi puntigliosamente elencate), la moralità delle sue guide (esemplare il riferimento a Gastaldi, al suo “codice di comportamento” per i combattenti, alla sua fede cattolica), il carattere patriottico che la guerra dei resistenti aveva assunto fino alla scelta di salvare la città con una resa concordata dei tedeschi. (Grazie anche alla mediazione del vescovo Boetto, “giusto fra le nazioni” per l’assistenza che aveva prestato agli ebrei).
È un invito implicito a non fermarsi a mitizzazioni, quando si ha a disposizione una storia complessa di donne e di uomini che seppero farsi carico delle domande che venivano da un’ora drammatica che chiamava alla responsabilità. Non deve stupire dunque il passaggio che denuncia in conseguenza la sua preoccupazione per una “democrazia a bassa intensità”. Anche qui vale la pena leggere una ulteriore concatenazione, non del tutto esplicitata, ma evidente.
Napoli, De Luca sul 25 aprile: «Ricordiamo chi ha combattuto per libertà»
Quando il Presidente rinvia al messaggio che ci ha lasciato papa Francesco, non inserisce semplicemente un doveroso omaggio ad un magistero che oggi occupa la nostra attenzione, ma ci ricorda che la domanda di responsabilità verso una storia che si sta facendo preoccupante è più che mai in campo come ha ricordato anche col suo esempio il pontefice venuto quasi dai confini del mondo.
Ecco allora che Mattarella inserisce nella sua lettura della Resistenza due elementi cardine su cui, pur astenendosi da proclami espliciti, invita tutti a riflettere, ma certo in primo luogo le classi dirigenti e le classi politiche. Il primo è il fatto che la guerra partigiana fu combattuta perché si potesse arrivare ad un mondo di pace. Oggi, dopo ottant’anni per noi senza conflitti militari, facciamo più fatica ad immaginare quanto fosse forte quell’aspirazione in donne e uomini che venivano tutti in qualche modo dal trauma di due guerre mondiali. Il disarmo degli animi fu, pur con tutte le asperità e contraddizioni inevitabili quando si ha a che fare con la natura umana, un obiettivo perseguito e proclamato. Non certo nei termini di un pacifismo utopistico e romanticheggiante, ma con azioni politiche meditate.
ll progetto
Nasce da qui il progetto di un’Europa unita dalla lotta che le sue migliori classi dirigenti condussero contro la deriva dei totalitarismi di destra, poi presto estesa anche ai totalitarismi di sinistra. Di nuovo siamo di fronte al richiamo ad una storia che in questo momento è giunta a misurarsi con un passaggio difficile, perché, interpretiamo noi, stiamo vedendo che non basta più la pace dei commerci e degli scambi, essendo necessaria una pace ben più strutturata su quei valori di libertà, democrazia e fraternità che Mattarella ha con forza richiamato.
Si valorizzi anche un passaggio del discorso che forse non viene colto appieno. Il Presidente aveva parlato dell’importanza della resistenza nelle fabbriche e del significato delle lotte operaie nel declino del regime fascista repubblichino (che, sia detto per inciso, è stato indicato proprio usando questo termine, il che gli toglie qualsiasi aura di ipotetica legittimazione). Poi ha citato come alto esempio di assunzione di responsabilità la figura dell’operaio sindacalista Guido Rossa, assassinato dalle BR perché aveva denunciato il loro tentativo di infiltrarsi nelle fabbriche.
Si potrebbe dire che si tratta solo del richiamo ad un esempio di moralità, ma ci permettiamo di dire che di fatto invita una volta ancora a recidere dei miti che purtroppo circolano ancora (e qualcosa si è visto anche nei cortei di ieri) per cui l’invito a continuare nella proclamazione dei valori della Resistenza significherebbe lasciare spazio a chi, avendola trasformata in una rivoluzione proletaria che non vi fu, vorrebbe riproporla con l’appello a forme di guerra civile: la nostra coscienza nazionale non lo consentì nei difficili anni di piombo, tanto più non possiamo dargli spazio nella attuale situazione problematica per le nostre democrazie.
Mattarella a Genova, pur dovendo parlare in un momento difficile da molti punti di vista e drammatizzato dalla scomparsa di un papa profetico, ha continuato in quell’opera di grande pedagogia nazionale che molti suoi predecessori hanno svolto in occasione del 25 aprile, e da ultimo con l’intensità che richiedevano i tempi Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Lo ha fatto con il rigore di chi ha il ruolo di rappresentare la nazione tutta, ma senza rinunciare al pathos tranquillo che parla alla sensibilità della gente.