Quella morte fu un ponte, gettato tra le porte che, schiuse qualche anno prima, sembravano nuovamente inchiavadarsi, e le porte che si sarebbero non aperte, ma spalancate quando, di rimbalzo dall’America, a Parigi sarebbe stato primavera, maggio per l’esattezza. E la storia, dunque, non poteva che assolvere subito chi la aiutava ad andare avanti, a consegnare ad una nuova generazione il testimone che quella precedente voleva tenere stretto senza sapere, in fondo, troppo bene cosa farsene ancora.
La sua vita che finiva, raccontava, del resto, fin troppo bene le vite che stavano per cominciare. A cominciare dalle origini. Da quella famiglia argentina di professionisti borghesi, benestanti, in cui egli era nato e che si attendeva –come tante famiglie così- che quel figlio vivace, intelligente, seguisse la via delle professioni: ingegnere forse, poi medico. Quella famiglia da cui si allontana, cercando se stesso prima che un posto nel mondo, in motocicletta, l’ippogrifo di una generazione on the road, per compiere un viaggio famoso, archetipo di migliaia di viaggi e di viaggiatori meno famosi, che come essi non raccoglie cartoline, ma le impressioni laceranti di un mondo diseguale e sofferente. Avventura romantica, un po’ individualista perfino, frutto di un banalissimo disagio giovanile, chi può negarlo? Se non fosse, però, che quella ribellione quasi domestica divenne, in lui la necessità di una rivoluzione. Da ribelle a rivoluzionario: lezione da meditare quando, a cinquant’anni di distanza, si accarezzano rivolte, ribellioni, “sfastidi”, immaginando che essi possano –in un mondo tutto virtuale- diventare il surrogato puramente comunicativo, e in fondo innocuo, di quella cosa grande e terribile che è una rivoluzione.
Cercandola in Messico, in Guatemala, trovandola a Cuba, il “Che” recupera quella rivoluzione “contro il “Capitale” (il Capitale di Marx, si intende) che Gramsci aveva intravisto e che in Russia era stata ormai scarnificata dalla dittatura stalinista. La sua è la rivoluzione delle “campagne del mondo, dei campesinos, dei “dannati della terra” che il colonialismo ha seminato un po’ ovunque. Sono loro che combattono nelle foreste dell’isola di Cuba una “guerrilla” che lo consacra come un capace comandante militare. Sono loro i padri di quelle donne e di quegli uomini che scavalcano, oggi, muri di filo spinato, intasano barconi, spingono a terra le statue di Colombo, chiedendo il conto a chi, forte allora, non seppe ascoltarli e, debole ora, è tentato di giocare le carte pericolose della paura. Ora, che la Cina non è più il riferimento – romantico, perché no? - di chi voleva uscire dalla contrapposizione tra il capitalismo e il socialismo “realizzato” e lo immaginava nei “cento fiori” e nella rivoluzione culturale del presidente Mao. Ora che la Cina è diventata una grande potenza mondiale. Ora che tutto è terribilmente più difficile.
Mito, dunque, come ripetono tante iniziativa spuntate in occasione dei cinquant’anni della sua morte. Ma bisognerebbe aggiungere anche storia vera, di cui il “Che” fu protagonista cosciente, non poetico ma politico. Mentre, infatti, la nostalgia fa comprare le sue magliette e gridare alla luna “hasta siempre comandante”, mentre tutte le rivoluzioni del Novecento, compresa la sua, si inabissano nei propri, rispettivi fallimenti, quelle del XXI secolo, che hanno i volti che egli conobbe in Algeria, in Guinea, in Bolivia infine, ci guardano da un luogo a noi sconosciuto.
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