Ventidue secondi. Se vivi ad Ashkelon, ad Ashdod o in qualsiasi città nei pressi della striscia di Gaza, è questo il tempo, dal suono delle sirene che hai per raggiungere il più vicino miklat, i rifugi antirazzo. Ventidue secondi che possono decidere della tua vita. Certo, il grande scudo Iron Dome è pronto ad intercettare i razzi che arrivano da Gaza, ma capita che qualcuno sfugga. Se vivi a Tel Aviv, il tempo di reazione, da quando suonano le sirene che annunciano l’attacco, è di un minuto e mezzo. Qualche secondo in più per Gerusalemme. Qualcuno scrive che gli israeliani sono abituati ai razzi, agli attacchi terroristici, agli attentati. Non ci si abitua mai alla violenza, all’orrore.
La paura è sempre dietro l’angolo. La vivono allo stesso modo israeliani e palestinesi, per i quali chi hai di fronte può essere un amico o un nemico, può avere un’arma da fuoco o bianca, può salire sull’autobus, vestire i panni di un agente o guidare un’auto che ti piomba addosso alla fermata dell’autobus o al check point. È un tutto contro tutti che aumenta violenza, odio e orrore basandosi sulla paura. A Gaza non ci sono bunker, non ci sono miklat, se non quelli che utilizzano i leader di Hamas, della Jihad Islamica palestinese e di coloro che governano la striscia. Spesso i razzi vengono lanciati da abitazioni private, da persone disperate, ridotte alla fame, rendendo di fatto questi degli scudi umani.
Cartelli in ebraico, non in altra lingua, neanche in arabo, indicano i luoghi. Non ho esperienza personale, ma ho chiesto ad amici se si fosse mai trovati nella stessa miklat arabi ed ebrei, anche quelli che vivono negli stessi quartieri. La risposta è sempre stata negativa. Quando vivi in queste città con le sirene ci convivi. Suonano per segnare l’inizio delle cerimonie, come il minuto di silenzio per le vittime della Shoah e altre, per sottolineare momenti importanti in giorni particolari. A scuola ti fanno fare le esercitazioni. Ma quando suona la sirena per i razzi, è tutto diverso. E cominci a contare i secondi.