Quel filo rosso sempre più sottile tra Salvini e Di Maio

di Massimo Adinolfi
Sabato 9 Marzo 2019, 08:00
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Un cuore rosso, Di Maio teneramente sulle punte, Salvini con le mani intorno al collo che lo bacia fraterno: il murale comparso in via del Collegio Capranica, lo scorso luglio, è stato in seguito rimosso, ma il governo no: quello anzi veleggiava (e ancora veleggia) sull'onda di un largo consenso, dopo che Lega e Movimento Cinque Stelle avevano faticosamente raggiunto l'accordo sancito in un «contratto per il governo del cambiamento» lungo ben 57 pagine.

Dalla A di Acqua pubblica sino alla U di Università e ricerca, in rigoroso elenco alfabetico, erano disposte tutte le materie su cui i due contraenti si impegnavano reciprocamente e con gli italiani. Al punto 27 (Trasporti, infrastrutture e telecomunicazioni), dopo gli incentivi alle autoibride, il car sharing e gli investimenti nelle aree retroportuali, ci si impegnava a potenziare le linee ferroviarie regionali, a favorire il passaggio da gomma a ferro, ma anche a ridiscutere integralmente il progetto della Linea ad Alta Velocità Torino-Lione. Che cosa voleva dire, però, ridiscutere integralmente?

Era chiaro che la formula adoperata celava in realtà un nodo non sciolto: non era altrettanto evidente che col passare del tempo e l'approssimarsi delle scadenze contrattuali quel nodo si sarebbe stretto sempre di più, al punto da soffocare, quasi, la maggioranza.

Se i Cinque Stelle e la Lega hanno del resto impiegato mesi per sottoscrivere quel contratto è perché in molti non ne avevano affatto voglia. Tra i Cinque Stelle soprattutto, che avevano e hanno in pancia anche senza ricorrere alla dicotomia destra/sinistra, che l'una e l'altra forza dichiarano di non essere interessati a riprodurre sensibilità ambientaliste, anti-industrialiste e welfaristiche molto lontane dall'orizzonte culturale della Lega.

Però dovevano stare insieme. Lo aveva spiegato Steve Bannon, appena una settimana dopo il voto del 4 marzo, in un colloquio con il direttore della Stampa, Maurizio Molinari: Devono governare insieme perché sono espressioni diverse dello stesso fenomeno; poi però il discusso analista politico americano aggiungeva di preferire la Lega, perché rappresenta il Nord, ovvero tre quarti del Pil nazionale, mentre il leader 5 Stelle propone il reddito di cittadinanza, una versione dell'economia sussidiata, che manderà in fallimento le casse pubbliche in meno di due anni. Cosa curiosa: Bannon diceva da un lato che Lega e M5S dovevano andare insieme al governo, dall'altro diceva alla Lega che insieme ai Cinque Stelle non ci poteva andare senza far saltare i conti pubblici. Sono lo stesso fenomeno, ma il fenomeno, preso nel suo insieme, rischia di scassare tutto.

Eppure sforzi per mettere insieme un programma condiviso sono stati fatti, soprattutto in materia economica.. La Lega ha tolto dal tavolo Flat tax e riduzione delle tasse, accontentandosi di aggredire la legge Fornero, mentre i Cinque Stelle hanno decisamente ridimensionato il reddito di cittadinanza, e con il decreto dignità hanno provato a riscrivere le regole sul lavoro. Vi sia o no coerenza e visione nell'insieme delle misure proposte, era evidentemente l'unico punto di mediazione possibile, in attesa di verificare la bontà della manovra.

La mediazione poteva reggere, però, e ha retto, finché hanno prevalso altri temi in agenda: per Salvini, i migranti e la sicurezza; per Di Maio, le indennità parlamentari e lo Spazzacorrotti.

Si è fatto più complicato non spezzare il filo, invece, dopo che il panorama descritto prima dai sondaggi d'opinione, poi dal voto amministrativo, è mutato: i Cinque Stelle in flessione; la Lega molto, molto più su del 4 marzo. Qualcosa è scattato, allora: perché un conto, per Di Maio, è tenere unito il Movimento mentre tutto va a gonfie vele, un altro è farlo quando le percentuali di voto sono accompagnate dal segno meno. Così, la mediazione sull'Ilva, lo scorso anno, si è trovata: non ci sono i giardini, al posto dell'acciaieria, come proponeva Grillo, e la produzione va avanti. Stessa cosa sulla Tap, il gasdotto che dal mar Caspio arriva fino alle coste pugliesi: lì le battaglie ecologiste di Alessandro Di Battista e Barbara Lezzi sono finite in soffitta, e l'opera si farà.

Ma sulla Tav no: la Tav è diventata l'ultima trincea. Indietreggiare ancora non si può. Mediare ulteriormente è impossibile. I grillini sono riusciti a votare compatti sul caso Diciotti, hanno chiuso i porti con Toninelli e votato la legittima difesa, ma la Tav no, la Tav non può passare. Cosa spiega questa intransigenza se non il calo di consensi e il bisogno di rinfrancare la base?

Non avremo così foto come quelle che circolavano nelle settimane che hanno preceduto la nascita dell'esecutivo Conte: Salvini e Di Maio in maniche di camicia, con i dossier aperti sul tavolo, gli staff intorno, in un clima di operosa collaborazione. Era evidente anche la cifra generazionale: leader giovani, che mandavano finalmente in soffitta un'intera stagione politica e i suoi rappresentanti, e cominciavano a disegnare il cambiamento possibile.

C'è da credere, peraltro, a Salvini, quando dice che lui vuole portare a termine la legislatura con l'attuale formula di governo e quando, soprattutto, lascia intendere che non ha molta voglia di rieditare il vecchio centrodestra: la sponda dei Cinque Stelle gli è stata anzi decisiva, per marcare discontinuità e rottura. Il guaio è che per i Cinque Stelle la sponda leghista non sta funzionando allo stesso modo: per loro, il rapporto con l'alleato, invece di porsi sotto il segno della rottura e del cambiamento, si è posto sotto quello del compromesso e del cedimento.

Ma, a ben vedere, era già tutto scritto. Anzi: non scritto, ma dipinto nel murale romano, dove era un energico Salvini a tirare a sé il capo dei Cinque Stelle: era lui a stampare il bacio sulle labbra di Di Maio. Ed è noto che non tutti i baci, nella storia, sono stati baci d'amore.
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