Tre quesiti a Di Maio
sul futuro dell'Ilva

di Oscar Giannino
Giovedì 9 Agosto 2018, 08:48
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«Ma vi pare che Di Maio possa essere così scriteriato da mandare a casa 14 mila persone»? Così il premier Giuseppe Conte ha chiosato le domande sull’ennesimo sviluppo della vicenda Ilva. La domanda retorica del presidente però non ha affatto una risposta obbligata.

Perché, in realtà, a furia di prender tempo ormai la vicenda Ilva rischia sempre più di sfuggire di mano, e di generare a catena una serie di conseguenze inintenzionali che potrebbero concretamente sfociare in un disastro.
Ieri Di Maio ha investito formalmente l’Avvocatura dello Stato di ben sei problemi, per fugare ulteriormente i dubbi che il vicepremier cova sulla regolarità dell’aggiudicazione nel giugno 2017 ad Arcelor Mittal dell’Ilva, a seguito della gara internazionale bandita dal governo italiano l’anno precedente. Tre sono gli stessi rilevati dall’Anac guidata da Raffaele Cantone, che pure aveva tenuto tassativamente a escludere che sulla loro base il governo potesse annullare l’aggiudicazione. Si tratta della mancata riapertura della gara quando fu evidente che l’altra cordata partecipante, AcciaItalia, aveva consegnato in busta chiusa una cifra inferiore a quella di Arcelor Mittal; della protrazione al 2023 del compimento delle bonifiche ambientali, e del correlato sospetto che si sia trattato di un favore ai vincenti; nonché la connessa decisione di non riaprire la gara in presenza della stessa protrazione degli obblighi ambientali disposti nel bando iniziale. A questo Di Maio ha aggiunto altre tre questioni, che sono di natura meno sostanziale ma altrettanto scivolosi in termini di regolarità amministrativa, e potrebbero comunque inficiare la regolare aggiudicazione.

A questo punto l’Avvocatura dello Stato dovrà procedere a tempi serrati, visto che la sua risposta si attende già per il 20 o al massimo il 24 agosto. Perché in ogni caso il 15 settembre scade il termine, che era stato già protratto in avanti, per il formale subentro di Arcelor Mittal alla guida degli impianti. E se scade il termine a questione irrisolta, e o se il governo dovesse trovarsi nella condizione di decidere un altro slittamento, per altro a casse completamente svuotate della gestione commissariale, il fantasma del recesso e dell’impugnativa da parte dei vincitori inizierebbe a prendere corpo. E di lì in avanti il disastro, proprio quello evocato ieri da Conte nella sua domanda retorica, diventerebbe inarrestabile.

Se ci si ferma alle questioni di legittimità, già ci sarebbe molto da eccepire all’iniziativa di Di Maio. Perché la gara fosse aggiudicata, l’Avvocatura dello Stato già si era pronunciata sui singoli provvedimenti che ora tornano sotto la lente. E l’esito della gara, non dimentichiamolo, è stato certificato anche dall’Antitrust Europeo, che ha poi emanato misure compensative pro concorrenza che hanno portato all’uscita alla cordata del gruppo Marcegaglia.
Ma ormai è sulla sostanza della vicenda, che a Di Maio è il caso di rivolgere tre domande precise. Quali sono davvero nelle sue intenzioni gli ostacoli maggiori a procedere alla fase operativa dell’aggiudicazione? È la richiesta ad Arcelor Mittal di assumere tutti i 14 mila dipendenti, e non poco più di 10 mila? È la volontà di riaccorciare i tempi delle bonifiche dopo averli protratti, o di rendere ancora più stringenti i loro obiettivi? Oppure è davvero la volontà di chiudere l’Ilva e la lavorazione a caldo, come i Cinque Stelle pugliesi in realtà da anni hanno detto, a muovere il ministro nella ricerca di quelli che diverrebbero puri pretesti formali? Non sono domande oziose. Né dettate da sfiducia o pregiudizio. Una risposta chiara ai tre interrogativi aiuterebbe semplicemente a dissipare incertezze e ipocrisie, a questo punto, rischiosissime. 

Sugli occupati, la disponibilità di Arcelor Mittal è passata in 14 mesi da 8 mila a oltre 10mila, poiché fino al compimento delle bonifiche ambientali la produzione non potrà andare oltre i 6 milioni di tonnellate, invece degli 8 a cui mirava la cordata, e per di più rispetto a una potenzialità degli impianti che arriva a 11 milioni. Ma per tutti i dipendenti non rilevati da Arcelor Mittal c’era pronta una soluzione congegnata dall’ex ministro Calenda che, per quanto onerosissima e per la quale ci sono già 200 milioni a disposizione, significava per gli esuberi comunque l’assunzione da parete di una newco collegata all’Ilva e con la partecipazione di Invitalia. 

Quanto agli obiettivi delle bonifiche, la loro protrazione temporale è stata giustificata con la necessità di renderli più stringenti e impegnativi, non meno. Su tratta di ridurre di un ulteriore 15% le emissioni di CO2 per tonnellata di acciaio, di una riduzione delle polveri del 30%, delle diossine del 50% , e della copertura del parco minerario entro il 2020. Ogni ulteriore modifica significa dover necessariamente rimettere mano sia al prezzo di aggiudicazione offerto da Arcelor Mittal in 1,8 miliardi, sia ai 2,4 miliardi di investimenti a cui essa si è impegnata. Anche in quel caso, il rischio di impugnativa e richiesta di penali da parte della cordata vincente sarebbe dietro l’angolo. 

E cosa avverrebbe in caso di chiusura? I commissari dovrebbero garantire i creditori. E le ultime documentazioni attestano in oltre 17.500 le insinuazioni al passivo per un ordine di grandezza di circa 6,6 miliardi. Senza i proventi risultanti dalla vendita, lo Stato dovrebbe metter mano a miliardi per i creditori, oppure dovrebbe assumersi la responsabilità di una legge ad hoc per annullarne il diritto, una norma espostissima all’impugnativa costituzionale. In tal caso, spenti gli altoforni e condannati alla rottamazione gli attuali impianti, i tempi per ottenere le autorizzazioni e per compiere davvero le bonifiche integrali sono prudenzialmente calcolabili in almeno 4 anni, con tutti i 14 mila dipendenti assunti – questa è la promessa sempre sottintesa dai Cinque Stelle – per le bonifiche stesse. Al miliardo e duecento milioni ricavati a questo fine dalla transazione con la famiglia Riva, bisognerebbe aggiungerne almeno un altro paio.

In sintesi estrema, se non si vuole abbattere il diritto dei creditori, servono come minimo 6-7 miliardi di euro per realizzare la sola prima fase dell’eventuale ripubblicizzazione-chiusura dell’Ilva. Dopodiché resterebbe aperto il problema di come impiegare e come pagare i 14 mila dipendenti dell’azienda: tutti potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza? Altri miliardi pubblici, per quanti anni? Per desertificare l’area produttiva? E accrescere ulteriormente le importazioni di acciaio dall’estero? Visto che in questi 6 anni di esproprio giudiziario già l’abbassamento della quota produttiva da 12 a poco più di 5 milioni di tonnellate annue ha costretto vasta parte degli utilizzatori italiani di acciaio prodotto a Taranto a rivolgersi all’estero. A cominciare da Fiat Auto, che si è rivolta a fornitori tedeschi. 

Vogliamo pensarla come Conte. E cioè che Di Maio non voglia davvero questo disastro. Allora, però, risponda con chiarezza a queste domande. E dissipi in equivoco che sa di deindustrializzazione e irresponsabilità. 
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