Incompiute al Sud, le grandi occasioni buttate al vento: la storia industriale rimasta a metà

Incompiute al Sud, le grandi occasioni buttate al vento: la storia industriale rimasta a metà
di Nando Santonastaso
Domenica 10 Marzo 2019, 08:00 - Ultimo agg. 09:00
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Si chiamava "Il viagio di Ettore", fu presentato al Torino film festival del 2013 per la regia di Lorenzo Cioffi. Raccontava in 25 minuti l'amarezza di un operaio genovese che torna a Napoli per rivedere la sua Italsider, nella quale ha lavorato per vent'anni, e scopre l'acciaieria non c'è più. E con essa quasi tutta la Napoli industriale che conosceva e di cui aveva fieramente fatto parte. Un viaggio amaro, ma in fondo anche il paradigma di una storia industriale del Mezzogiorno nella quale le occasioni di sviluppo perduto, come quella di Bagnoli, fanno comunque notizia. Perché sono ferite vive e tutt'altro che rimarginate anche nella coscienza popolare. Sembrano il fondale irrinunciabile di una rappresentazione teatrale dal finale annunciato, il filo conduttore di una trama di ritardi, omissioni, errori, connivenze e ingiustizie ma anche di pregiudizi e strumentalizzazioni che il termine divario esemplifica forse troppo ma che aiuta a capire perché il Sud è rimasto in gran parte Sud. I casi di Termini Imerese e dell'abbandono della Fiat; di Taranto e del porto non dragato che fece fuggire i cinesi; del distretto del mobile imbottito tra Basilicata e Puglia passato da Wall Street alla crisi più nera; di Gioia Tauro e della sconfitta nella sfida della competitività con i grandi hub delle coste africane; di Bagnoli e dei quasi 30 anni di inutile attesa per la bonifica e il riuso dell'area. Questi ed altri casi solo in apparenza meno noti o meno importanti appartengono alla storia del Sud come i dominatori stranieri, le eruzioni del Vesuvio o dell'Etna, la criminalità organizzata e come anche la scommessa vinta dai giovani millennials con le Academy di Apple, Cisco e Deloitte a Napoli. Quelle storie appartengono insomma a ciò che il Sud non è stato o non ha voluto essere. Sono un punto obbligato di ragionamento per capire dove e come il divario (e non solo quello economico) è nato e ha prosperato. Ma non si può trascurare il fatto che sono anche gli ultimi esempi di occasioni di sviluppo, mancato o fallito, pensate per il Mezzogiorno: perché, come osserva Salvio Capasso, responsabile dell'ufficio di economia delle imprese e del territorio di Srm, a differenza del Nord non ci sono più state negli ultimi 20 anni opportunità analoghe nel Sud. Magari sarebbero andate storte anche queste ma è innegabile che la spinta prodotta da eventi significativi soprattutto sul piano economico, come l'Expo di Milano o lo stesso Mose di Venezia, da noi non si sono più viste. E' un dato che fa riflettere e aiuta a trasformare ogni viaggio nel Mezzogiorno frenato o tradito (burocrazia, criminalità, connivenze e chi più ne ha ne metta) in un percorso a senso unico. Dimenticando, tra l'altro, cosa hanno significato dieci anni di calo record dal 2008 di investimenti pubblici in un'area priva di infrastrutture, piena zeppa di neet e in cui trovare un lavoro adeguato al proprio titolo di studio e retribuito adeguatamente resta un miraggio, o quasi.
 
Il fil rouge, di sicuro, è chiaro: le opportunità perse. A Termini Imerese nel 1970 lo sviluppo si misurava sui 400mia metri quadrati dello stabilimento Fiat, diventato fatalmente il simbolo di una radicale trasformazione dell'economia dell'isola. Un'illusione pagata a caro prezzo: nei primi 20 mesi dopo la chiusura dell'impianto, avvenuta il 24 novembre del 2011, il Pil della Sicilia crollò quasi dello 0,5 per cento, con perdite per oltre 825 milioni di euro. Termini Imerese da sola ha perso 3.500 posti di lavoro e il 6,5% di residenti. Secondo i dati di Unioncamere, nel Comune siciliano sono sparite negli ultimi anni 120 attività imprenditoriali. Da sola la Fiat garantiva occupazione a 3.200 addetti ma si calcola che altrettanti erano impegnati nelle aziende dell'indotto. Al momento della chiusura (l'ultima autovettura prodotta fu una Lancia Y) i dipendenti erano circa 1900, progressivamente ridottisi fino a poche centinaia, alle prese con i rinnovi della cassa integrazione e frustrati da delusioni in serie, come i fallimenti di quasi tutti i progetti che sembravano poter rilanciare una parte almeno dell'impianto anche con i soldi pubblici della Regione. Forse, sospettano i sindacati, erano solo questi a far gola. La realtà di oggi è il deserto, un coro di annunci della politica, da Renzi a Di Maio, inchieste sulla destinazione dei soldi e così via.

Il fatto è commenta l'economista Emiliano Brancaccio dell'università del Sannio che in un'epoca di produzioni mature, come l'auto, è inevitabile fare i conti con un eccesso di capacità produttiva. Alla fine, resistono solo gli impianti capaci di difendersi da una concorrenza feroce che al Sud non sono mai stati molti ancorché svantaggiati dalla loro collocazione geografica. Termini Imerese aveva il destino segnato, inutile nasconderlo, così come l'Ilva a Taranto: di fronte a forme sempre più forti di concentrazione produttiva, pagano i più deboli. E allora come adesso c'è ben poco da fare: le norme europee impediscono la svalutazione della moneta che in altri tempi aveva garantito una certa flessibilità nei momenti di crisi economica; non si può ricorrere a scelte di protezionismo, bloccando le importazioni, perché bisognerebbe uscire dal sistema Ue e i rischi sarebbero enormi; e non ci sono più investimenti pubblici in grado di soccorrere le filiere in difficoltà, visto che ormai da anni lo Stato li ha ridotti in modo vistoso. Vengono in mente le parole di Sergio Marchionne che salvò Pomigliano d'Arco e Melfi dopo avere rinunciato a Termini Imerese: Alla fine i produttori di auto nel mondo faranno sempre più alleanze tra di loro e resteranno non più di 4-5. La profezia sembra sempre più vicina alla realtà.

A Gioia Tauro invece la cronaca sembra prendere quotidianamente il posto dei rimpianti, dei progetti mai decollati fino in fondo, della scommessa per ora persa di trasformare il più grande porto italiano sul Mediterraneo in uno dei tanti, e nemmeno tra i più gettonati dalle grandi company dello shipping. Forte il clamore mediatico per l'ultima brillante operazione delle forze dell'ordine contro il narcotraffico internazionale: non era la prima e non sarà l'ultima ma Gioia Tauro ormai sui tg nazionali ci finisce praticamente solo (o quasi) per questo. Non a caso per molti era e forse rimane soprattutto il porto della mafia, una narrazione che si fa fatica a cancellare e che fa ancora oggi sull'opinione pubblica fa più resa anche dell'ennesimo contenzioso che riguarda da mesi decine di operai a rischio di licenziamento. Sembra quasi passato un secolo da quando il porto veniva esaltato con numeri da fare invidia persino a Rotterdam o Marsiglia: «Da solo genera il 72% del pil calabrese», raccontavano le cronache di allora, quasi mezzo secolo fa. E spiegavano che «Gioia Tauro per cinesi, egiziani, tedeschi e norvegesi è un punto chiave nella geografia del Mediterraneo». Ma già allora il progetto originario era mutato: nato a supporto di un centro siderurgico mai concretizzato (a differenza, almeno in parte, di quanto accadde a Taranto con l'Ilva), modificò la sua vocazione verso quella di scalo commerciale, fino a diventare negli anni '90 il principale porto mediterraneo di trashipment, cioè il trasbordo di merci da nave a nave. Un primato importante ma non al punto da garantire allo scalo una prospettiva di sviluppo adeguata alle trasformazioni intervenute nel corso degli anni sulla natura stessa del trasporto marittimo delle merci. Cosa vuol dire disporre di un grande porto se poi non riesce a diventare un valore aggiunto essendo clamorosamente ancora privo di collegamenti ferroviari e in particolare di quelli ad alta velocità? Nella relazione che accompagna la richiesta di Zona economica speciale, già approvata dal governo e in via di istituzione, si legge chiaramente che «con un adeguato collegamento Gioia Tauro potrebbe diventare il centro delle attività di smistamento per tutta la rete ferroviaria nazionale».

Troppo tardi? Forse. La speranza si chiama Zes, appunto, ed è il minimo per una struttura da numeri impressionanti: più di 5mila metri lineari di banchine, fondali profondi fino a 18 metri, 440 ettari di aree, piazzali per una superficie complessiva di un milione e ottocentomila metri quadrati. E soprattutto un traffico container di circa 3 milioni di Teu, l'unità di misura del settore. Eppure, non sono bastati a impedire che la concorrenza sempre più forte e qualitativamente importante degli altri Paesi costieri, dal Marocco con Tangeri alla Spagna con Algesiras, facesse perdere sempre più quota a Goia Tauro: Parliamo di un'opera compiuta ma destinata a perire nelle sabbie mobili di un Sud abbandonata a se stesso o a diventare una risorsa da potenziare per rilanciare economia, formazione, lavoro non solo al Sud ma per tutto il Paese? si chiede Filippo Romeo, Direttore del programma infrastrutture dell'Istituto di alti sudi in geopolitica e scienze ausiliare, nel volume collettivo (a cura anche di Domenico Napoli e Massimliano Porto, Isag-Cefris, Roma 2016) dedicato al porto calabrese. La domanda andrebbe rivolta a quanti, politici in testa e non solo locali, hanno di fatto frenato l'inevitabile, quasi naturale aspirazione dello scalo al salto di qualità, lo stesso che oggi la nuova Autorità portuale cerca di realizzare puntando a costruire un hub all'altezza della sfida di questi tempi. `Il problema è così diventato la burocrazia, che in un momento particolarmente critico per gli equilibri mediterranei ma altrettanto favorevole per questo tipo di porti, ha fermato tutto, derubricando la questione a seconda della convenienza elettorale mentre era e rimane una questione strategica e vitale per tutto il Paese.

Difficile, perciò, non condividere le preoccupazioni di chi come Natale Mazzuca, presidente degli imprenditori calabresi, è animato da una ferrea volontà di costruire una prospettiva di sviluppo diversa per la sua terra: «C'è un allarme da non sottovalutare a proposito di Gioia Tauro ed è il calo del movimento dei container, diminuito secondo i dati ufficiali dell'Autorità portuale di circa il 6% nel 2018. La Zes è la grande chance per il pieno rilancio, dal porto può dipendere una fetta decisiva del futuro economico e dunque sociale e occupazionale non solo della Calabria ma anche del Mezzogiorno. Sostenere questa svolta anche da parte del governo centrale è indispensabile.

Già, le scelte della politica. Spesso, e non è impossibile dimostrarlo, fanno a pugni con quelle dei privati. Dice Amedeo Lepore, docente di Storia economica all'università della Campania Luigi Vanvitelli: «La grande incompiuta oggi per il Sud rischia di diventare proprio l'investimento pubblico. Dalle nostre parti sembra che debba diventare una specie di variabile indipendente, come cioè se se ne potesse fare a meno. Un errore catastrofico invece: perché se non ci accorge in tempo che è indispensabile progettare, ad esempio, il rinnovo della linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria, non solo si continuerà a privare il Sud di infrastrutture indispensabili ma si freneranno anche gli investimenti delle imprese. E questo è decisamente un paradosso: le aziende meridionali di eccellenza, come ormai è ampiamente documentato, sono superiori in termini di fatturato a quelle omologhe del Settentrione».

A Taranto ricordano invece come se fosse ieri la fuga di Evergreen e Hutchinson dal porto. Era la fine del 2015, le due multinazionali (la prima con capitale cinese) riunite nel gruppo TCT (Taranto Container Terminal) trasferirono a Bari i sempre più redditizi traffici con il Pireo, il porto di Atene. Una decisione solo in parte inaspettata considerato che a Taranto la presenza dell'Ilva, ancorché già alle prese con i problemi che ne hanno poi determinato la vendita agli indiani di ArcelorMittal, e il binomio siderurgia-scalo marittimo sembravano vincenti o quasi. Si passò in pochi giorni dalle 60 navi quotidiane allo zero quasi assoluto, in un clima di fortissime polemiche politiche, tra scambi di accuse, denunce e veleni. La tesi preponderante nella difficile ricerca della verità su ciò che accadde parla di impegni promessi ma non mantenuti nei confronti della multinazionale, a partire dal necessario dragaggio che avrebbe permesso l'attracco di navi di maggiore tonnellaggio e che in realtà non è stato più realizzato. È una storia di cronoprogrammi disattesi, di progetti rimasti sulla carta e poco approfonditi (come quello che tendeva a trasformare l'aeroporto di Grottaglie in scalo merci a supporto dello scalo marittimo), di tempi di valutazione della politica esageratamente più lunghi di quelli che ogni normale impresa può attendere. Insomma, i due players che avevano puntato su Taranto sarebbero sti quasi costretti a scappare per poter concretizzare i loro investimenti. Di sicuro, la loro scelta si è rivelata vincente perché da allora sono i cinesi a fare il bello e il cattivo tempo al Pireo, quasi tutto di proprietà ormai delle imprese di Pechino. Taranto è rimasta a guardare ciò che stava avvenendo nell'altra sponda dell'Adriatico pur rimanendo comunque appetibile sul piano internazionale: lo dimostra l'interesse mostrato dai turchi di Yilport per rilevare il polo multisettoriale, nonostante l'immancabile contenzioso giudiziario sollevato da imprese del territorio e i nodi occupazionali in gran parte irrisolti.

La sostanza è che recuperare gli anni del tonfo non sarà facile, specie se si considerano il peso e l'incertezza provocati nello stesso periodo di tempo alla città dalla difficile gestione della vendita dell'llva. Una tempesta quasi perfetta, verrebbe da dire, se non fosse che si è scatenata sulla pelle di centinaia di lavoratori (la riassunzione da una società all'altra anche stavolta non è un percorso obbligato) e sulle prospettive del territorio. «Eppure si legge in uno studio presentato da Alessandro Panaro di Srm due anni fa proprio a Taranto in un meeting sul futuro del porto lo sviluppo strategico del porto resta fondamentale per la Puglia e per l'Italia». Solo che bisognerebbe cambiare vision, fare cioè come ad Anversa dove dalla sinergia sistema porto-università è nato un centro di competenze in ambito marittimo di assoluto livello scientifico. O implementare contemporaneamente, come dice Panaro, «il traffico container, lo short sea shipping, il traffico crocieristico e la movimentazione delle rinfuse».

Servirebbe insomma unità di intenti a tutti i livelli (come in quasi tutto il Mezzogiorno). Ma forse anche di più. Perché, come dice l'economista Canio Trione, docente all'università di Bari, «lo sviluppo del Sud non può non coincidere con lo sviluppo delle imprese che ci sono. Non basta vantarsi della presenza della Bosch a Bari o dell'Alenia a Grottaglie per corroborare la statistica del Pil regionale: la realtà vera dimostra che il contadino pugliese è costretto a vendere i suoi mandarini allo stesso prezzo di quelli del Marocco, o il produttore di pomodorini sott'olio deve misurarsi con la concorrenza dei colleghi spagnoli per le quote di produzione. Questi casi non fanno statistica ma sicuramente son molto più rappresentativi dello stato dell'arte. Se bastasse un Expo a far rinascere il Sud staremo a cavallo: in realtà dopo la Cassa per il Mezzogiorno si è persa una visione organica di ciò che quest'area sarebbe potuta diventare e non la si è più recuperata».

È almeno in parte anche la storia di molti distretti industriali del Sud. Quella del mobile imbottito di Puglia e Basilicata, ad esempio. Il divano made in Murgia aveva raggiunto ai tempi d'oro, tra gli anni Ottanta e Novanta il tetto dei 12mila occupati tra Matera, Altamura e Santeramo in Colle, in provincia di Bari, con oltre 500 aziende: oggi i lavoratori sono meno di un terzo e le aziende un centinaio. Colpa della globalizzazione, si disse, come inevitabile deriva di un modello produttivo che doveva competere su mercati sempre più agguerriti senza avere molte frecce al proprio arco in uno scenario finanziario profondamente mutato. Il super euro, ad esempio, penalizzò sicuramente le esportazioni nei Paesi del dollaro, un tempo punto di riferimento dei divani made in Murgia (l'azienda più nota, la Natuzzi, fu perfino quotata a Wall Street). Poi è arrivata la crisi economica indotta dal caso dei mutui subprime Usa e la situazione si è ulteriormente complicata. Ora sul fronte appulo-lucano è il tempo dell'autocritica, della riscoperta da parte di chi ha resistito della rete, del fare sistema, di superare i limiti di una concorrenza troppo locale per poter affrontare i competitors di oltre confine, avvantaggiati oltre tutto dall'insostenibile carenza infrastrutturale che, piaccia o no, resta la zavorra principale del Mezzogiorno. Per dare un'idea, l'intero raddoppio di una strada strategica come la Bari-Matera è arrivato solo nel 2015 per non parlare dell'assenza di una linea ferroviaria diretta per raggiungere Matera, capitale europea della cultura 2019.

Grandi e piccole occasioni di sviluppo perdute o poco sfruttate, o volutamente sprecate tra inefficienze e giochi politici, non sono certo un patrimonio esclusivo del Mezzogiorno. Ma qui fanno sempre più notizia ed è impossibile dimostrare che non è giusto quando si ha a che fare con il caso più emblematico, Bagnoli, quasi 30 anni di attesa (la chiusura dell'Italsider è del 1991) e una svolta che ancora non c'è. Il futuro dopo l'addio alla grande fabbrica siderurgica, che a regime tra diretti e indotto aveva occupato anche 12mila unità, non è una pagina bianca perché piani, progetti e perfino finanziamenti non sono mai mancati. Ma non è nemmeno l'avvio vero e proprio della riqualificazione.

Il racconto degli ultimi 28 anni di Bagnoli è un groviglio di iter burocratici complessi anche quando non sembrava, inchieste e sequestri della magistratura, contrapposizioni spesso strumentali tra enti (Comune e Regione soprattutto), polemiche e confusione, accuse, proteste e allarmi (l'ultimo, quello di Invitalia, a proposito del rischi di vedere allungare ancora i tempi della bonifica se le aree non saranno dissequestrate dalla magistratura, è di un mese fa). Si fa fatica a raccontare tutto ciò, e quel che è peggio si fa ancora più fatica a capire quando e come quello che doveva essere il simbolo di un nuovo Mezzogiorno inizierà ad esserlo. Quando e come, cioè, la Bagnoli bonificata e riutilizzata diventerà il simbolo di una dimensione economica, sociale e ambientale decisiva non solo per Napoli ma per le classi politiche e dirigenti dell'intero Mezzogiorno. La dimostrazione, per farla breve, di una sfida raccolta e vinta. Come a Milano, dove pure gli spazi ex industriali in disuso non mancano ma dove la sintonia tra imprese, enti locali e sistema del credito è sempre stata tale da superare le barriere ideologiche o l'esasperazione dell'individualismo pur di raggiungere l'obiettivo: migliorare la qualità della vita. L'università Bicocca ospitata negli edifici Pirelli è solo uno degli esempi. Qui invece, in quella che nostalgicamente si ricorda ancora come la capitale del Mezzogiorno, il tempo delle parole prevale ancora su quello dei fatti, sulla necessità di fare squadra, sull'esigenza di riconoscere costi quel che costi l'assoluta priorità dell'interesse pubblico. Per questo, Bagnoli rimane la partenza e l'arrivo di ogni viaggio dentro il Sud delle occasioni sciupate. Dove è persino facile come dimostra Città della Scienza, provocatoriamente voluta e realizzata da Vittorio Silvestrini proprio a due passi dal perimetro dell'ex fabbrica abbandonata, immergersi nel futuro senza alcuna fatica o prevenzione. Dove lo smarrimento dell'operaio genovese tornato a Napoli dopo 20 anni può ancora non diventare un'emozione senza ritorno, una rassegnazione al fallimento, una valigia pronta per cambiare aria.
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