Treni, Bagnoli e Caravaggio: l'Italia dei no

di Francesco Durante
Domenica 10 Marzo 2019, 10:00
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Confesso di non aver palpitato di particolare passione all’insorgere della querelle su Caravaggio e le Sette opere di misericordia, prima concesse poi negate al museo di Capodimonte per la grande mostra che si inaugurerà in aprile. All’inizio avevo semplicemente pensato che si trattasse del solito duello tra coloro che, in base a una rispettabilissima opinione, ritengono che le opere d’arte non debbano mai esser rimosse dal luogo in cui sono state collocate ab origine.

E i loro avversari che, in maniera altrettanto rispettabile, pensano invece che, con le opportune garanzie, le opere possano e anzi debbano girare per essere mostrate al più vasto pubblico possibile. Di solito, la contesa tra queste due visioni si risolve usando il buon senso, cioè a partire dalla considerazione che, se i primi avessero tutta la ragione dalla loro parte, non esisterebbero più le grandi mostre e nemmeno i grandi musei; e che, se la ragione stesse soltanto dalla parte dei secondi, bisognerebbe rincorrere i capolavori dell'arte in giro per il mondo pur di riuscire a vederli.

Confidando nel buonsenso, pensavo quindi che le schermaglie si sarebbero prima o poi ricomposte. In seguito ho capito che in campo non c'era solo questo. C'era, bensì, il cristallizzarsi di due partiti divisi pressoché su tutto, e non da oggi ma, presumibilmente, fin da quando al ministero dei beni culturali Enrico Franceschini aveva intrapreso la sua azione volta a valorizzare il patrimonio attraverso soluzioni non tradizionali (almeno per il contesto italiano), come la nomina di direttori stranieri in alcuni dei maggiori musei e siti archeologici, l'impulso dato a gestioni di segno più manageriale, l'apertura a eventi e iniziative in grado di determinare un sensibile aumento del numero dei visitatori.

In Italia non è come in America, dove i grandi capitali privati foraggiano generosamente le maggiori istituzioni culturali. In Italia i fondi sono quelli che sono, ed è perciò una buona cosa se i musei, attirando più visitatori, sanno trovare il modo di rimpinguarli. La cura Franceschini, dal mio punto di vista, ha fatto bene ai nostri beni culturali: le statistiche di questi ultimi anni lo dimostrano in modo chiaro. Ed è grazie a quella cura, e all'opera di direttori che sanno vestire anche altri panni oltre a quelli degli storici dell'arte, se oggi abbiamo musei più frequentati, più puliti, più accoglienti, più attraenti non solo per la ristretta élite degli studiosi ma anche per le centinaia di migliaia di sprovveduti che, visitandoli, hanno finalmente potuto trovarsi al cospetto di quella bellezza che tendevano a non riconoscere più o che addirittura non avevano mai conosciuto. Ci piaccia o no, quella cura, cioè la tanto vituperata valorizzazione aggiunta alla conservazione, finisce per esercitare anche una fondamentale funzione educativa.

Eppure, come sappiamo, tante delle novità intervenute in questi anni sono andate incontro a critiche anche feroci, incontrando la sorda opposizione di non pochi alfieri del vecchio regime. Basterebbe ricordare la vicenda dei direttori stranieri: sono stati necessari anni e oltre venti pronunciamenti amministrativi per decidere, infine, che la loro nomina era legittima. Ma evidentemente non tutto il rancore era sbollito, e dalla guerra dichiarata si è passati alla guerriglia, di cui anche la vicenda delle Sette opere di misericordia sembra essere un episodio. I meccanismi s'inceppano, le decisioni del sovrintendente a Napoli vengono ribaltate dalla direzione del ministero a Roma, l'opinione dei reggitori del Pio Monte della Misericordia non conta più nulla, lo stesso profilo scientifico della mostra voluta da Capodimonte viene revocato in dubbio e perfino i toni degli articoli sui giornali paiono confermare che, al riparo della veronica del progettato, modestissimo viaggio della grande tela di Caravaggio; dietro il presunto sacrilegio che avrebbe consentito a un siffatto capolavoro di essere ammirato da un numero infinitamente più consistente di persone rispetto alle, ahimè, poche che affluiscono al Pio Monte; dietro la sbandierata idea di decentrare il percorso espositivo, quasi che a Napoli per i turisti fosse un gioco da ragazzi fare un salto a Capodimonte e da lì, alè, rimbalzare ai Decumani e viceversa; che dietro tutto questo ci sia insomma anche, e soprattutto, dell'altro. Se poi inscriviamo questa vicenda nel quadro più ampio delle diatribe che negli ultimi tempi sono fiorite a Napoli intorno a questioni come le famose griglie del Plebiscito o i destini di Bagnoli, e, su scala nazionale, intorno alla madre di tutte le battaglie, e cioè il Tav Torino-Lione (anche quello, peraltro, legato ad analisi costi/benefici che mutano verso secondo il committente), con il premier Conte che ieri ha rinviato ogni decisione sui contratti, impantanato nel duello tra Salvini favorevole all'opera ed Di Maio assolutamente contrario, possiamo renderci conto che in questo piccolo grande gioco rischiano di decidersi questioni ben più grandi, tali da investire le sorti della città e dell'Italia.

Per quanto riguarda in particolare Napoli, si rischia di rinchiuderla dentro la gabbia di un attendismo senza scadenza. Di condannarla, cioè, a una immobilità di cui, con tutti i suoi strabilianti problemi, è già prigioniera. Per questo motivo, a me viene in mente il portone di palazzo Serra di Cassano: da tenere chiuso, come aveva voluto il duca nel 1799 e come, raccogliendone la geniale provocazione, aveva ribadito l'avvocato Gerardo Marotta, fino a quando a Napoli non avrebbero finalmente trionfato la libertà e la democrazia. Bene. Guardiamoci intorno con animo spassionato: ci rendiamo conto del fatto che esiste la possibilità teorica che non si creino mai le condizioni per poterlo riaprire?

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