La proroga non basta/Ilva, il grande banco di prova per misurare il governo

di Oscar Giannino
Mercoledì 27 Giugno 2018, 00:04
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Dunque in extremis per Ilva la decisione è stata spostata ieri sera dal 30 giugno, termine a cui il governo era legato con Arcelor Mittalm che dal maggio 2017 ha vinto la gara per assicurare il futuro produttivo del gruppo e le bonifiche ambientali, al prossimo 15 settembre. 

Il rinvio è stato reso possibile senza oneri ulteriori per lo Stato, visto che Ilva perde oggi circa 30 milioni al mese e i 900 milioni pubblici sin qui stanziati sono al lumicino, grazie al fatto che la gestione commissariale stresserà al massimo possibile i pagamenti ai fornitori, e può comunque contare su un residuo di fondi che l’ex ministro Calenda aveva lasciato come ultima riserva di emergenza disponibile. 

È stato praticamente obbligatorio ricorrere a un rinvio. Perché in realtà il ministro Di Maio, in tutti gli incontri che ha avuto sul tema, con i commissari pubblici della società, con Confindustria, con Arcelor Mittal, come con le associazioni tarantine che sono per la chiusura dello stabilimento e hanno fortemente sostenuto il successo elettorale dei Cinque Stelle che in alcuni quartieri di Taranto hanno superato il 50%, non si è mai lasciato sfuggire di bocca una sola parola decisiva sulle sue reali intenzioni. A tutti ha ripetuto che sta studiano le 23 mila pagine del dossier.

E qualcuno ha capito e riferisce che in realtà sta facendo accuratamente riesaminare l’intero iter della gara di aggiudicazione, con il retropensiero che vi possa essere stata qualche magagna che diventerebbe naturalmente occasione per annullarla e ripartire da zero. 

Intanto, una cosa è sicura. Non saranno altri 75 giorni a cambiarla. Finora i primi segnali vocali lanciati dal vicepremier sono ispirati a un’accelerazione del reddito di cittadinanza e all’abolizione di slit payment e redditometro che implicano miliardi di aggravi del deficit già in questo 2018, a una forte stretta sui contratti di lavoro a tempo che sa molto di passato ideologico, e a un forte pregiudizio sulle multinazionali, minacciate di dover restituire con interessi del 200% i contributi eventualmente ricevuti in caso di revisione degli occupati. Cosa che si tradurrebbe in un chiaro segnale a non investire in Italia. 

Ma sarà quella sull’Ilva a Taranto la prima vera scelta che darà compiutamente l’idea di quale sia la concreta visione di questo governo e di Di Maio sull’industria e sulla manifattura, in Italia e nel Sud.
È comprensibile che ognuno, giungendo al governo, voglia ricominciare da capo? Può sembrarlo. In realtà la risposta è no. La vicenda Ilva a Taranto procede da sei anni. Quello che era il secondo impianto europeo di produzione di acciaio a ciclo continuo in altoforno, che sotto la gestione privata dei Riva realizzava utili e investimenti, e che dal luglio 2012 si trascina in un’infinita storia di vicende giudiziarie e incertezze strategiche, è arrivato 13 mesi fa a una svolta che sarebbe irresponsabile voler pregiudicare. 

Da allora, già in tre successive diverse tornate di trattative, Arcelor Mittal si è confrontata con il precedente governo sul piano industriale, gli investimenti che è disposta a mobilitare, gli occupati da garantire. Siamo arrivati al punto in cui Arcelor ha alzato la disponibilità a impegnare sino a quasi 5 miliardi, di cui 2,5 di investimenti tra nuovi impianti e bonifiche ambientali, subordinati però alla continuità e al potenziamento del ciclo continuo in tre altoforni, riportando la produzione complessiva dai 5,7 milioni di tonnellate a cui era scesa nel 2016 di nuovo verso i 10 milioni di tonnellate entro fine 2023. Ma tutto questo sempre che il via libera non fosse continuamente rinviato, e comunque al netto di nuove impugnative o perduranti contenziosi giuridici.

Invece di un via libera, l’orizzonte torna ad oscurarsi. C’è chi sussurra si voglia chiedere ad Arcelor Mittal di rinunciare per cominciare ad uno dei tre altoforni. E chi pensa che in ogni caso si debba integralmente rimetter mano all’ultima offerta presentata ai sindacati da Calenda e rifiutata da Cgil e Uil, con la benedizione del presidente della Puglia Michele Emiliano che non ha mai fatto mistero di sperare nell’arrivo di Di Maio, e che dalle impugnative al Tar alle continue proposte di soluzioni alternative per la bonifica ambientale dell’Ilva è sembrato flirtare spesso e volentieri con la chiusura vera e propria dell’impianto. Chiusura che del resto da lungo tempo era stata indicata come soluzione dagli esponenti locali dei Cinque Stelle, proponendo come via da battere l’uscita dalla siderurgia, e la presa in carico di tutti i dipendenti in un fantascientifico ciclo trentennale di bonifiche accompagnate dalla realizzazione di un polo ambientale universitario.

Eppure la proposta Calenda era arrivata a garantire l’assunzione a tempo indeterminato per tutti i lavoratori in esubero rispetto ai soli 10 mila confermati da Arcelor Mittal (che era partita da una quota più bassa). Altri 1500 sarebbero passati a una newco di Ilva e Invitalia con commesse garantite dall’acciaieria, e infine i restanti 2300 in carico all’amministrazione straordinaria fino al 2023, e con garanzia di ricollocazione e pingue incentivo alla ricollocazione, fino a 100 mila euro a lavoratore. Solo la Fim Cisl con il suo leader Marco Bentivogli voleva ancora trattare. Negli altri è prevalsa la voglia di tirare ancora la corda. Magari cercando l’impegno di inchiodare Arcelor Mittal a riassumere comunque tutti gli eventuali esuberi di qui a cinque anni.

Bisogna sapere e mettere in conto che ciascuna di queste condizioni aggiuntive significa da parte di chi ha vinto la gara una ovvia richiesta di ridiscutere preliminarmente il prezzo di aggiudicazione. Si perderebbe altro tempo. Con l’incognita di una rinuncia che sfocerebbe nel recesso della cordata, esponendosi anche a una maxi penale giudiziaria. Quando invece l’Ilva a Taranto ha bisogno che si inizi a reinvestire subito, a cominciare dalla vera e propria emergenza sicurezza che si è creata nelle lavorazioni che sono ancora attive, e dove si avverte tangibilmente la lesina di capitali freschi per interventi che sono ormai di assoluta emergenza. Per questo confidiamo che nelle letture di Di Maio vi siano anche i casi europei, a cominciare dall’austriaca Linz non troppo lontana dal nostro confine, in cui la produzione di acciaio in altoforno è sempre proseguita ed è resa coerente alla tutela di salute e ambiente, senza che nessuno pensi di fermarla.

Chiudere l’Ilva comporta portare un nuovo colpo mortale alla siderurgia italiana, accrescere la dipendenza dalle importazioni che già si è alzata verticalmente in questi sei anni. Vuol dire liquidare il polo siderurgico del Mezzogiorno. E gettare ancora più in ginocchio Taranto, dove Ilva rappresenta una delle poche risorse occupazionali dell’intera città, mentre le attività portuali sono in declino in declino e la disoccupazione raggiunge il 17%, ma è addirittura del 40% nella fascia di età dai 18 ai 29 anni.

Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: chiudere l’Ilva per dare magari a 14 mila dipendenti e alle migliaia di lavoratori dell’indotto il reddito di cittadinanza sarebbe una vittoria solo per chi avesse in mente un colossale passo falso assistenzialistico e anti industriale.



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