M5S-Pd, ecco perché il ribaltone non ha senso

di Massimo Adinolfi
Giovedì 16 Maggio 2019, 08:00
4 Minuti di Lettura
Proviamo a ragionare «sine ira ac studio» – senza farci prendere cioè dalle passioni, dalla rabbia o dal desiderio – e domandiamoci se la svolta a sinistra dei Cinque Stelle, insieme ai quotidiani motivi di attrito con la Lega, possono davvero preludere a un futuro cambio di maggioranza, e a un nuovo contratto: stipulato, questa volta, nientedimeno che da Di Maio e Zingaretti. 

Le ragioni per prodursi in un simile esercizio sono due. Una l’abbiamo detta già: le cose, fra grillini e leghisti, non vanno più bene come un anno fa. L’altra sta nei numeri: nell’attuale Parlamento, Pd e Cinque Stelle supererebbero, insieme, il cinquantuno per cento. Altre soluzioni alternative (salvo governi del Presidente, con tutti dentro) non si vedono. Naturalmente, i numeri c’erano già all’esordio di questa legislatura. Ma un Pd ancora nelle mani di Renzi non poteva certo consegnarsi al nemico, dopo la batosta rimediata il 4 marzo. La domanda è se invece oggi esistano tali condizioni, se il tempo non abbia lenito certe ferite, e soprattutto se vi sia un interesse a muoversi in questa direzione.

Ora, siccome i gruppi parlamentari Pd non sono cambiati, nel giro di un anno (per quanto ogni nuova segreteria avvii una fase di ricollocazione fra le file di deputati e senatori), è difficile ipotizzare che un simile ribaltone non incontrerebbe ostacoli e resistenze. Ma è ancora più difficile sostenere che vi sarebbe un interesse, da parte del Pd, a tentare un esperimento del genere.

Non parlo di aspetti programmatici: i Cinque Stelle hanno dimostrato di saper compiere non poche piroette, su quasi tutti i punti sui quali hanno chiesto i voti. Di irrinunciabile c'è ben poco. L'ultimo esempio lo ha offerto la giornata di ieri: dopo essersi affacciato lo scorso autunno al balcone di palazzo Chigi rivendicando lo sforamento del deficit, alla faccia dell'Europa e dello spread, ieri Di Maio si mostrava preoccupato per le improvvide dichiarazioni di Salvini sul tetto del 3 per cento da superare. Il fatto è che ai Cinque Stelle è rimasta un'unica ragione identitaria, e un solo contenuto irrinunciabile. E cioè: il giustizialismo nella lotta alla corruzione, e il reddito di cittadinanza in economia. Su tutto il resto ci si può sedere attorno a un tavolo. E il Pd di Zingaretti sembra (sembra: non si sa ancora fino a che punto) abbastanza disponibile a trovare una mediazione su entrambi i terreni. Stessa cosa si può dire probabilmente sul salario minimo, qualora Di Maio ne volesse fare la nuova battaglia irrinunciabile: una soluzione si trova sempre.

Ma le condizioni politiche? Qui il discorso è molto diverso, e del resto l'anno di governo ormai trascorso qualcosa dovrebbe pur insegnare. Se Lega e Cinque Stelle hanno infatti potuto stringere un patto che appariva addirittura contro natura (ma quale alleanza politica, con i Cinque Stelle è invece secondo natura?), è perché le due forze erano state premiate dal voto. Non solo, ma il contratto certificava per entrambi i contraenti l'ingresso nell'età adulta. Per Salvini, la fine della subordinazione a Forza Italia e allo schema di alleanze imposto da Berlusconi; per Di Maio, la fine di qualunque pregiudiziale ad excludendum verso la forza politica più giovane e più inesperta. Poi c'era il robusto collante del potere, ovviamente. Ma non sarebbe bastato, senza il cospicuo dividendo politico staccato da entrambi i leader.

Controprova: se si ragiona di una crisi di governo dopo le europee, non è forse perché si immagina uno scenario in cui la Lega vince, e i Cinque Stelle perdono? Naturalmente c'è bisogno, di più, che per Salvini non dovrebbe trattarsi di un ritorno nell'ovile del centrodestra, e questo dipenderà essenzialmente dalle percentuali di Forza Italia. Ma se fra i partner di governo i rapporti di forza si rovesciassero, è evidente che gli sconfitti pentastellati avrebbero solo da temere la cannibalizzazione da parte della Lega, e farebbero più di un pensierino su un diverso rapporto col Pd.

Torniamo allora a Zingaretti. Dove sta il suo interesse? In un ribaltone certo no: sarebbe incomprensibile. Ma dopo un eventuale voto anticipato? Forse sì, se ci si vuol porre il problema di dare un governo al Paese. Ma politicamente l'unica condizione che consentirebbe a Zingaretti di muoversi in una simile direzione sarebbe, anche in questo caso, un sensibile ribaltamento dei rapporti di forza. Non semplicemente sopravanzare i grillini di un pugno di voti il 26 maggio, ma finirci parecchie incollature davanti. Se infatti c'è il Pd è perché c'è una risposta alla crisi di legittimità della seconda Repubblica e del sistema dei partiti: l'opposto di ciò che il Movimento significa. Solo se questo fosse il senso dell'alleanza, e se dunque poggiasse su una chiara inversione del trend elettorale, il Pd avrebbe strada davanti. In qualunque posizione subordinata, da junior partner, il Pd non reggerebbe la prova. Perderebbe pezzi. Perché certificherebbe l'azzeramento della storia e delle culture politiche che tra i democratici sono confluite. Sarebbe forse un nuovo inizio, una nuova Repubblica? Può darsi. Ma in ogni caso, sarebbe qualcosa che Zingaretti non potrebbe mai fare in nome del Pd come lo abbiamo conosciuto sinora.
© RIPRODUZIONE RISERVATA