I tre punti della riforma Nordio riguardano la separazione delle carriere tra giudici e Pm, la designazione per sorteggio dei magistrati che dovrebbero entrare a far parte dei due Csm e la costituzione di un’Alta Corte disciplinare che, “espropriandone” il Csm, dovrebbe avere il compito di giudicare gli illeciti disciplinari (appunto) addebitati ai magistrati. Dico subito che a tale ultima ipotesi non sono, in linea di massima, contrario. Far giudicare gli elettori dagli eletti non è una buona idea perché possono permanere vincoli di riconoscenza e di comune militanza correntizia che non facilitano la serenità di giudizio. La riforma, però, dovrebbe riguardare tutte le magistrature (dunque anche quella amministrativa, quella contabile e quella tributaria), altrimenti assumerebbe inevitabilmente un sapore punitivo nei confronti della magistratura ordinaria. Per coerenza, bisognerebbe poi aprire una riflessione anche sulle altre forme di giustizia domestica (ad esempio nell’ambito degli ordini professionali), in quanto anche esse lasciano non poco a desiderare. Lo stesso discorso dovrebbe valere per il sorteggio. Se si elimina il diritto di elettorato attivo per i magistrati ordinari, riesce difficile trovare una base teorica per mantenerlo per le altre magistrature, fermo restando che sarà la sorte e non più il voto a determinare i rapporti di forza tra correnti all’interno del Csm (cioè la proporzione tra gli appartenenti ai vari schieramenti). E la fortuna, si sa, è cieca e, a volte, anche dispettosa.
Potrebbero quindi essere prevalentemente estratti nominativi, ascrivibili a una corrente (ritenuta) particolarmente agguerrita. Ma il vero punto qualificante (si fa per dire) rimane la separazione delle carriere, in relazione alla quale è necessario sviluppare considerazioni più approfondite. Sembra inevitabile partire dal presupposto che un governo e la sua maggioranza, fino a prova del contrario, non progettano riforme inutili. Ogni mutamento legislativo ha (o dovrebbe avere) una sua ratio: deve insomma mirare a uno scopo pratico da raggiungere, deve proporsi di ottenere un risultato; utile o dannoso, secondo i punti di vista. Appare allora lecito chiedersi quale sia la ragione per la quale si vuole separare la “carriera” del Pm da quella del magistrato giudicante. La domanda è tutt’altro che oziosa dal momento che, con la Riforma Cartabia, è stata introdotta una separazione delle funzioni (giudicanti e requirenti) che rende di fatto quasi impossibile il passaggio di un magistrato da un ruolo all’altro. Infatti tale passaggio può avvenire una sola volta nel corso di tutta la vita professionale e comporta che chi cambia funzione debba cambiare anche Corte di Appello, il che, il più delle volte, determina anche che si debba andare ad abitare in altra regione. L’effetto di tale assetto era prevedibile: le richieste di cambio di funzione si sono praticamente azzerate. E allora perché insistere nel voler separare le “carriere”, essendo più che sufficiente aver separato “le funzioni”? Deve esserci uno scopo non dichiarato. I malpensanti (tra i quali mi iscrivo) credono - nonostante lo si neghi expressis verbis - che si voglia realizzare “l’aggancio” del Pm ai desiderata della maggioranza e, attraverso esso, al potere esecutivo. Anche senza manomettere (ulteriormente) la Costituzione, è possibile farlo. Si può, ad esempio, agire, con legge ordinaria, sul codice di procedura e sull’ordinamento giudiziario. Processo alle intenzioni? Indubbiamente, ma esso è vietato nei tribunali, non nelle valutazioni di natura politica. Esistono per altro non pochi indizi che danno concretezza a questo timore.
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Innanzitutto le varie proposte di modifica che hanno preceduto e affiancato quella governativa (Costa-Giachetti-Calderone-Morrone e altri), proposte molto più aggressive e incisive, in secondo luogo qualche voce dal sen fuggita, ma principalmente il ritornello in base al quale, una volta stabilita la parità tra Accusa e Difesa, il Pm vestirà (finalmente) i panni di “avvocato della Polizia”. In realtà la Costituzione dice tutt’altro (art. 109), vale a dire che l’Autorità giudiziaria (quindi anche il Pm) dispone direttamente della Polizia giudiziaria. Si vuole sovvertire questo rapporto? E che farà l’avvocato (della Polizia) quando imputato sarà un appartenete a un corpo di Polizia (non la Polizia in quanto tale, ovviamente)? Aver attribuito al PM lo stesso status, la medesima formazione e l’identico meccanismo di selezione, del magistrato giudicante fu, per i Costituenti, una scelta consapevole, volta proprio a garantirne autonomia e indipendenza e a scongiurare il rischio che, assimilandosi troppo ai corpi di Polizia, finisse per gravitare nell’orbita del potere esecutivo. Di fronte a tali argomentazioni, si replica, in genere, che è addirittura scandaloso che Pm e giudici appartengano allo stesso ordine, perché ciò, già in astratto, violerebbe il principio di terzietà ed equidistanza del giudice, chiamato a valutare l’operato di un collega. L’argomento, come dicono i giuristi, prova troppo, in quanto anche il giudice di appello è chiamato a valutare ciò che ha deciso il collega in primo grado e il giudice di Cassazione deve pronunciarsi sulle decisioni dell’uno o dell’altro o di entrambi. E dunque: a quando la separazione delle carriere tra magistrati di tribunale, magistrati di appello e magistrati di Cassazione? Ciò a tacere del fatto che non esiste alcun dato statistico a riprova del cosiddetto appiattimento del giudicante sul requirente. Anzi! Ma poi, e per concludere, chiariamo una buona volta che la terzietà, come mero dato aritmetico, è del tutto insignificante: si può essere terzi, ma non indipendenti, né imparziali. La terzietà, a ben vedere, è un attributo dell’imparzialità. Si è terzi perché imparziali, non il contrario.
Dunque “giudice terzo e imparziale” è un’endiadi. L’imparzialità è garantita, nel nostro sistema, sul piano strutturale, dall’ingresso in magistratura solo per concorso (dunque non per nomina), sul piano funzionale, dalla natura del processo accusatorio in quanto la prova si forma innanzi al giudice (cui è noto solo il capo di imputazione e il contenuto dei cosiddetti “atti irripetibili”), nel contraddittorio – appunto – delle parti. Per quel che mi riguarda, confesso di essere stato tra quei pericolosi magistrati che hanno rivestito sia ruoli giudicanti che requirenti (dalla Pretura alla Cassazione) e francamente ritengo che ciò mi abbia arricchito non poco sul piano professionale. È un assunto indimostrabile, ovviamente e allora mi rifaccio alle parole inutilmente scritte sul Corriere il 18 febbraio 2022 dal professore Franco Coppi (che, non dimentichiamolo, fu tra i difensori di Berlusconi), “lo scambio di esperienze [tra giudici e Pm, ovviamente] aiuta a interpretare il singolo ruolo”.