Scuola, no a 1600 tagli per il 2026 mentre sul tempo pieno servono subito 5600 posti

Scuola, no a 1600 tagli per il 2026 mentre sul tempo pieno servono subito 5600 posti
di Marco Esposito
Martedì 31 Maggio 2022, 07:36 - Ultimo agg. 17:36
4 Minuti di Lettura

Tra quattro anni ci sarà un primo taglio di posti di insegnante e la scuola scende in sciopero. Sguardo lungo, si dirà. Ma i sindacati, su ventuno punti della piattaforma alla base della protesta, non dicono una parola sul taglio di diritti programmato anche per il prossimo anno scolastico, con il tempo pieno nella scuola primaria garantito al 55,3% delle classi nel Lazio e al 17,6% in Campania; al 51,8% in Lombardia e al 10,7% in Sicilia; al 50,9% in Emilia Romagna a fronte del 6,9% in Molise e del 17,7% in Puglia. Per aggredire tale divario territoriale servirebbero quasi 5.600 assunzioni di insegnanti elementari, di cui 1.856 in Campania, oltre ovviamente a personale tecnico e ai servizi accessori comunali come le mense scolastiche.

Ma la scuola italiana ha programmato l'anno scolastico 2022/2023 in base al principio che va tutto bene così. Per i docenti di ogni ordine e grado sono confermati 620.256 posti cosiddetti comuni, cui si aggiungono 50.202 di potenziamento e 117.170 di sostegno.

Il governo però in un decreto a fine aprile ha programmato un taglio sui posti di potenziamento di 1.600 unità per l'anno scolastico 2026/2027 (lo 0,2%), cui si sommeranno altri 2.000 tagli nel quattro anni successivi per un totale di 9.600 posti in meno su 787.628 (1,2%). La riduzione della pianta organica non avverrà con licenziamenti, ovviamente, ma con una minore copertura del turnover e la somma risparmiata servirà a finanziare il bonus una tantum per una quota dei docenti che farà un percorso di formazione.

I ventuno punti della piattaforma che accomuna Flc-Cgil, Cisl-Scuola, Uil-Scuola e gli autonomi Snals e Gilda hanno tutti rilievo sindacale e anche obiettivi ormai condivisi dall'opinione pubblica nazionale come «il progressivo avvicinamento alla retribuzione dei colleghi europei». Stupisce però che non vi sia nulla - zero assoluto - sulla riduzione dei divari territoriali come se sia giusto guardare alla retribuzione del corpo insegnanti in Francia o in Germania e non ci sia tempo per vedere cosa accade nelle scuole della Sicilia o della Campania. A partire, ovviamente, dalla primaria, fondamentale per limitare il fenomeno della dispersione scolastica, peraltro uno dei pochissimi parametri sociali inseriti tra gli obiettivi del Pnrr.

In media in Italia ci sono 1,55 insegnanti delle elementari (considerando i posti comuni, quindi senza potenziamento e sostegno) ogni classe. Tale valore coincide con quello della regione che garantisce il tempo pieno più diffuso, cioè il Lazio, e quindi può essere considerato un indicatore ottimale. Ebbene: ben sette regioni sono al di sotto di tale indicatore con un minimo di 1,41 per Campania, Puglia e Sicilia. La differenza tra 1,55 e 1,41 può apparire di pochi decimali ma in realtà equivale a dire che il numero di posti dovrebbe aumentare del 10%. Anche in termini meramente sindacali, quindi, la battaglia per incrementare da subito di 5.600 posti l'organico in sette regioni dovrebbe avere più senso, rispetto a una contrazione in termini di minore rimpiazzo di pensionati di 9.600 posti a regime nel 2031. Peraltro per allora la popolazione italiana in età scolastica sarà certamente diminuita, perché le stime demografiche sono affidabili: dagli attuali 8,5 milioni di alunni (dalle materne alle superiori) si passerà a 7,4 milioni. Esagerando un po', il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi ha detto che avrebbe dovuto tagliare 130.000 docenti, invece di 9.600.

Video


I sindacati della scuola però - e su questo probabilmente colgono nel segno - sono preoccupati della prospettiva. Il Def (il documento programmatico) assegna infatti al capitolo scuola un valore decrescente, che dal 4% del Pil nel 2020 passa al 3,4% nel 2030. Quindi c'è qualcosa di molto più consistente dei 9.600 posti in meno (a fronte peraltro di un bonus una tantum in busta paga). Dal ministero dell'Istruzione si spiega che il taglio è apparente, in parte (0,25% di Pil) dovuto a una diversa contabilità per il corpo di insegnanti di sostegno (che dal 2024 passerà a un altro capitolo di spesa) e in parte minore (0,10%) dalla fine dei fondi extra per il Covid che sul 2020 e sul 2021 hanno pesato per 1,8 miliardi annui. Ma è anche vero che - come sottolinea l'Istat nel report Italia in cifre - «nel 2018 la spesa pubblica per istruzione rappresentava il 4,0% del Pil, a fronte di una media Ue del 4,7%». E quindi programmare di scendere al 3,4% non è un segnale verso la convergenza. Ci sono margini, insomma, perché l'Italia punti di più sulla formazione dei giovani. E soprattutto che lo faccia senza le attuali drammatiche differenze territoriali.

© RIPRODUZIONE RISERVATA