Cavone, acqua e malacqua:
la vita a strapiombo
nel canyon napoletano

Cavone, acqua e malacqua: la vita a strapiombo nel canyon napoletano
di Vittorio Del Tufo
Domenica 8 Novembre 2020, 11:35 - Ultimo agg. 9 Novembre, 14:03
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«E nisciuno me dice niente...»
(Pino Daniele, Chillo è nu buono guaglione)

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Vertiginose ferite aperte nel tufo diventano fondaci, gradoni, spade nella roccia, misteriosi passaggi sotterranei che conducono - gli anziani del quartiere ne hanno la certezza e le prove, avendoli attraversati più volte durante la guerra - fino a Toledo, ai Quartieri Spagnoli, a piazzetta Augusteo. Case incastrate nelle viscere della roccia, incollate l'una all'altra come in un presepe vivente, raccontano storie di un'altra Napoli, simile a una città capovolta, labirintica e misteriosa con i suoi torrenti di pietra che scivolano verso il mare. Lungo il solco scavato dalle acque che scendevano dalla collina, nella notte dei tempi, nacque il Cavone, canyon metropolitano e antico letto del mitico Sebeto, il fiume caro agli Dei e ai Poeti.

Il Cavone scava e dilava, budello di pietra e carne che si innerva verso le alture di San Potito, Pontecorvo, Salvator Rosa e Tarsia. Il Cavone è «la via che s'apre l'acqua che scende dalle colline» (Gino Doria, Le strade di Napoli), è un luogo della nostra memoria, è la Napoli multietnica e tollerante dove la regista Paola Randi, dieci anni fa, girò le scene del film «Into Paradiso» e dove viveva con passo svelto, anch'egli sul ciglio di uno strapiombo, il «buono guaglione» che Pino Daniele descrisse in uno dei suoi pezzi più belli, alla fine degli anni 70.

E mi chiamerò Teresa
Scenderò a far la spesa
Me facce crescere e capille
E me metto e tacchi a spillo...

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Anche se in politica non era certo un cuor di leone, re Alfonso II d'Aragona amava fare le cose in grande. Il sovrano aveva un notevole gusto per l'eleganza e le sue dimore furono chiamate delizie alfonsine. Il Poggio Reale, con il suo splendido parco che arrivava fino al mare; la Duchesca, per la cui costruzione furono mandate via con la forza le suore del convento della Maddalena; la Ferrantina, nella zona dell'attuale liceo Umberto, a Chiaia; e La Conigliera, di cui sopravvive qualche traccia in via Luperano 7, al Cavone. La Conigliera, che alla morte di Alfonso II passò ai principi di Leporano, si estendeva fino alla strada dell'Infrescata, cioè via Salvator Rosa.

Ufficialmente la strada porta il nome di Francesco Saverio Correra, venerato giurista vissuto nell'Ottocento, celebrato come un maestro al pari di Enrico Pessina, al quale è dedicata la strada che congiunge piazza Dante con il Museo. Giovanni Porzio, altro gigante del foro partenopeo, lo descrisse come «un vecchio, dalle cui spalle cadeva una logora palandrana, in una cravatta nera il collo sottile, sul quale si inclinava e tremava, lievemente, una testa bislunga ed arguta, una faccia assorbita, impassibile, con le tracce di un sorriso ambiguo e sagace dentro le rughe. E la folla lo seguiva ansiosa di ascoltare l'esile voce, infaticabile evocatrice di remote dottrine e di testo obliati».

Un altro figlio illustre di questa strada fu il generalissimo della prima guerra mondiale. Dopo la disfatta di Caporetto, in sostituzione di Luigi Cadorna, al comando supremo delle forze armate italiane venne chiamato un napoletano del Cavone, Armando Diaz. «Piccolo di statura, occhialuto, con un aspetto più da professore che da soldato», scriverà di lui Montanelli. Il generale del Cavone riuscì nella difficile impresa di risollevare le sorti dell'esercito italiano avvalendosi del prezioso contributo di una canzone, quella Leggenda del Piave che era stata composta nel luglio 1918, durante la fase finale del conflitto, da un altro napoletano, E.A.

Mario, al secolo Giovanni Ermete Gaeta. La canzone del Piave fu uno straordinario balsamo per il morale delle truppe italiane impegnate contro i soldati austro-ungarici. In quello stesso mese, luglio 1918, l'esercito italiano, già reduce dalla disfatta di Caporetto, riuscì a respingere la nuova, grande offensiva sferrata dagli austro-ungarici: la famosa Battaglia del Solstizio, come la chiamò Gabriele D'Annunzio (oltre 200 mila tra morti e feriti sui due fronti). Fu proprio Diaz a inviare un telegramma a E.A.Mario per dirgli che quel testo aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso: «La vostra Leggenda del Piave al fronte è più forte di un generale». «Tanto maltrattata dai piemontesi nella fase iniziale dell'Unità, Napoli si vendica nobilmente contribuendo a completarla con una canzone molto orecchiabile, un generale pieno di tatto e molti valorosi combattenti», scriverà Antonio Ghirelli nella sua Storia di Napoli.

Al civico 5 di via Correra abitava invece l'editore napoletano Riccardo Ricciardi, con la moglie Maddalena Tampone e la figlia Annamaria. Era nato lo stesso anno, lo stesso mese e lo stesso giorno di Stalin e sin da giovanissimo fu un appassionato ed assiduo frequentatore di biblioteche e di librerie. Passione che nei primi anni del 900 divenne un lavoro grazie all'incontro con Benedetto Croce il quale lo invogliò nel 1907 a pubblicare le poesie di Salvatore di Giacomo in alcuni volumi che, assieme ad un opuscolo su Goethe, rappresentarono il primo frutto della sua attività di editore. Come ricorda Andrea Jelardi nel secondo volume (in corso di stampa) del suo bel libro «Strade, personaggi e storie di Napoli, da Posillipo a Toledo», Ricciardi fu un sincero ed appassionato amante dei libri, tanto che detestava le immagini fuggevoli del cinema o peggio ancora della televisione, odiava lo sport vantandosi di aver assistito ad una sola partita di calcio in vita sua e, per eccesso di quest'odio, arrivava a ripudiare anche i bagni al mare. «Il suo hobby, l'unico che ebbe e coltivò - scrive Jelardi - fu quello decisamente insolito per le cose macabre e lo vide appassionato conoscitore di cimiteri italiani ed esteri, collezionista di stampe ed immagini di cortei funebri, possessore di una rara raffigurazione del funerale di Mozart e della fotografia del boia inglese Albert Pierrepiont, mentre sul suo scrittoio conservava un piccolo feretro di accurata fattura ed una scatola in cui erano disposte le ossa di una mano».

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Il fondaco di Santa Monica è uno squarcio di luce e di vita nel buio. Le case sono adagiate sulle mura di un ex convento, che nel 1646 fu intitolato alla santa. Nell'insula, intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a gente che aveva scarsi mezzi economici. In queste stradine che s'inerpicano verso Salvator Rosa minuscole fratture tra i palazzi lasciano intravedere squarci della collina.

Cavone acqua e malacqua. L'acqua che scendeva dalla collina, defluendo attraverso il Cavone, diventò malacqua nel febbraio dell'82, quando un altissimo costone di tufo si sfaldò e piovve la morte dal cielo: sessanta abitazioni distrutte, uccisa nel sono una donna di 62 anni, Ida Bernardini. In quella occasione furono trovate numerose cavità e in via Salvatore spuntò una targa risalente all'acquedotto del Carmignano, costruito durante il viceregno spagnolo. Storie, leggende e miti di una strada dove si incontrano le mille facce e i mille colori della Napoli di ieri e di oggi.

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