«Che venti! Che tuoni!»,
la regina, il poeta
e lo tsunami del 1343

«Che venti! Che tuoni!», la regina, il poeta e lo tsunami del 1343
di Vittorio Del Tufo
Domenica 16 Giugno 2019, 18:00 - Ultimo agg. 17 Giugno, 00:30
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«Sarebbe troppa lunga historia, se io volessi contare l'horrore di quella notte infernale...».
Francesco Petrarca fu tra i primi ad accorgersi che qualcosa di terribile, forse di irreale, stava per abbattersi sulla città e sui suoi abitanti. L'autore del Canzoniere, inviato a Napoli dal Papa per perorare la causa di tre fratelli, figli della casata dei Pipini, fatti imprigionare da re Roberto d'Angiò, era ospite del convento di San Lorenzo e, davanti alla finestra del suo romitorio, che guardava verso occidente, scrutava la luna dietro il monte di San Martino, con la faccia piena di tenebre e nubi. I servitori dormivano già da alcune ore e il cielo era più sereno del solito. Anche la temperatura era insolita: faceva addirittura caldo benché fosse ormai inverno inoltrato. Petrarca non seppe dire se e come la tragedia si annunciò; ricordò, tuttavia, che fu assalito all'improvviso «dal timore della morte vicina». Un timore cieco, irrazionale, che gli impedì di prendere sonno. Era la notte tra il 24 e il 25 novembre 1343.

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Cosa accadde a Napoli, esattamente, quella notte?
A svelarlo è stata, recentemente, una ricerca italiana pubblicata sulla rivista Scientific Reports e coordinata dall'Università di Pisa. A raggiungere le coste della Campania sarebbero stati, nel corso del Medioevo, non uno ma ben tre tsunami scatenati dal crollo del fianco nord-occidentale del vulcano Stromboli. Il quale, secondo il giudizio degli esperti, sarebbe ancora potenzialmente in grado di generare tsunami altrettanto violenti. I maremoti sconvolsero la costa campana in ben tre occasioni, dunque, e in un arco di tempo compreso tra il 1343 e il 1356. Quello del 1343 fu lo tsunami più devastante.

Giovanna I d'Angiò, nipote di Roberto il saggio, era salita al trono da pochi mesi. Aveva appena sedici anni. Anche lei, come Petrarca, fu testimone oculare dei fatti di quella drammatica notte. Qualcuno sostenne, in quelle ore e nei giorni successivi, che l'onda assassina fosse partita da Genova. In realtà fu un'ingente frana sottomarina, avvenuta a Stromboli, a scatenare il maremoto. Un'eruzione, o un lieve terremoto, avrebbe innescato il collasso della Sciarra del Fuoco, il fianco nordoccidentale del cono vulcanico, provocando l'onda di tsunami che si propagò fino alle coste campane. La ricerca che chiarisce i misteri di quella notte è stata condotta in collaborazione con Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Università di Modena-Reggio Emilia e Urbino, Istituto di studi del Mediterraneo antico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), City University of New York, American Numismatic Society, Associazione Preistoria Attuale.

Ricostruire lo tsunami del 1343 ha richiesto una grande collaborazione interdisciplinare tra vulcanologi e archeologi. Era noto che Stromboli fosse capace di produrre piccoli tsunami, ma questa ricerca, come osserva la vulcanologa Antonella Bertagnini, dell'Ingv di Pisa, «porta alla luce, per la prima volta, la capacità del vulcano di produrre, anche in tempi relativamente recenti, tsunami di scala nettamente superiore e potenzialmente in grado di raggiungere aree costiere anche molto distanti».

Può accadere ancora? Teoricamente sì. Ancora nel dicembre del 2013 un piccolo crollo dello Stromboli generò un mini tsunami. Precedentemente, nel 2000 sempre a Stromboli, a seguito di una forte eruzione del cratere, si verificò il crollo di una parte del costone lungo la Sciara del Fuoco che causò un'onda anomala che arrivo fino al lungomare dell'isola con danni anche alle attività degli isolani.

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Un astrologo vecchio e balbuziente, pochi giorni prima, aveva predetto che presto una terribile catastrofe si sarebbe abbattuta sulla città. Tutto accadde in una manciata di minuti. Il terremoto fu preceduto da un boato che squassò la notte mandando in frantumi vetri e finestre. I frati e il priore del monastero, già in chiesa per cantare il Mattutino, furono scaraventati a terra. Il buio inghiottì in un attimo le loro urla.

Poi arrivò la scossa, una frustata talmente violenta che ai religiosi di San Lorenzo, e al loro illustre ospite, parve che la terra franasse sotto i loro piedi. Petrarca, barcollando, raggiunse il chiostro dove si erano radunati i monaci. Tutti insieme attesero, piangendo e pregando, che venisse fatta la volontà di Dio. La profezia del vecchio astrologo balbuziente si stava avverando.

«Che gruppi d'acque! Che venti! Che tuoni! Che tremito spaventevole dal mare!».
Un'onda alta quaranta metri si era abbattuta sulla costa provocando distruzione e morte nel raggio di duecento chilometri. Aveva sommerso galere che avevano attraversato mari in tempesta, aveva distrutto il molo angioino, il borgo dei pescatori; aveva fatto franare anche un'intera ala del Castello Marino dove, secondo la leggenda, il Mago Virgilio aveva nascosto un uovo dalla cui integrità sarebbero dipese le sorti della città intera. Ma tutto questo, Petrarca lo apprese solo l'indomani. Le fondamenta del vecchio convento di San Lorenzo avevano resistito e le preghiere dei monaci erano state esaudite.

Quando il giorno arrivò, fu talmente scuro che sarebbe stato impossibile distinguerlo dalla notte. «Voltando la disperazione in audacia», il Poeta montò a cavallo per vedere con i suoi occhi cosa fosse accaduto. E ciò che vide lo avrebbe accompagnato per il resto della vita. «In mezzo del Porto si vedevano sparsi per lo mare infiniti poveri, che mentre si sforzavano d'arrivare in terra, la violenza del mare gli haveva con tanta furia buttati nel porto, che parevano tante ova che tutte si rompessero. Era pieno tutto quello spatio di persone affogate o che stavano per affogarsi: chi con la testa, chi con le braccia rotte e altri che uscivano loro le viscere». In quelle stesse ore, la regina Giovanna, scalza e discinta, correva per le strade, scavalcando morti e feriti, per entrare nelle chiese che avevano resistito alla terribile mareggiata e pregare insieme al suo popolo.

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Prima di abbattersi sulle coste della Campania, l'onda spazzò via tutti gli ostacoli che a mano a mano aveva incontrato lungo la strada. Piccole casupole di pescatori e formidabili flotte da guerra, antichi moli e intere città di mare. Si narra, ma forse solo una leggenda, che esista una Amalfi sommersa, una piccola Atlantide nell'azzurro mare della costiera. Dopo lo tsunami il profilo della costa ne uscì a tal punto stravolto e la sabbia trasportata dalle onde lasciò tali e tanti detriti da ostruire del tutto il deflusso dei corsi d'acqua, che già stentavano a raggiungere il mare.

Sarebbero stati proprio gli sconvolgimenti subiti dal territorio in conseguenza del maremoto del 1343 a provocare l'ingrottamento, e la progressiva scomparsa, del mitico fiume Sebeto. Come può un fiume scomparire da un momento all'altro? È un interrogativo sul quale non solo gli indagatori dei misteri napoletani, ma anche fior di studiosi, geologi e speleologi si sono interrogati a lungo. «Ancora nel quattordicesimo secolo - spiega il decano degli speleologi Clemente Esposito - qualcosa restava di questo famoso fiume, e se la sua portata è andata via via scemando fino alla sua completa scomparsa, questo è dovuto sia all'intensa urbanizzazione del territorio sia agli sconvolgimenti subiti da questa terra dal punto di vista sismico». Non è un caso che molti esperti, come Esposito, indichino il quattordicesimo secolo come un'epoca spartiacque per il «mitico» Sebeto. Dunque a interromperne il mitico fluire sarebbe stato proprio lo tsunami che «volse in audacia» il terrore di Francesco Petrarca.
 
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